Mario Monicelli

L’ARTIGIANO DEL CINEMATOGRAFO

a cura di Lorenzo Mirizzi

« Considero il cinema un'arte applicata: una forte industria e la capacità di far sognare la gente comune ». Mario Monicelli

Mario Monicelli nato a Viareggio nel 1915, cresce in una famiglia d'intellettuali. Il padre, Tommaso, in collaborazione con Arnoldo Mondadori fonda "Il Giornale di Roma" e dirige "il Resto del Carlino".

Di cinque maschi e una femmina, quasi tutti i figli divengono giornalisti. Mario è il più scapestrato: dapprima pensa di diventare un romanziere, poi, scopre l'amore per il cinema. Tale passione nasce e si afferma grazie ai film muti che venivano proiettati in quel periodo e, in particolare, rimane colpito da quelle che diventeranno le icone della comicità della storia del cinema: Keaton, Chaplin e Ridolini. Conosce Alberto Mondadori ed è proprio con lui che realizzerà i suoi primi lungometraggi: Il cuore rivelatore (1934) e I ragazzi della via Paal (1935).

Lavorando ora come sceneggiatore, ora come aiuto regista, nel 1946, in concomitanza alla collaborazione per Aquila Nera (1946), conosce Stefano Vanzina (in arte Steno) col quale darà vita a un sodalizio molto remunerativo che gli permetterà, tra l'altro, di guadagnare i soldi necessari al proseguimento della sua attività.
In più di sessanta anni di carriera cinematografica, Monicelli, ha vissuto le diverse stagioni del cinema italiano svolgendo, in alcuni casi, un ruolo determinante nella loro evoluzione: la stagione del cinema di regime, la stagione neorealistica e la stagione della "Commedia all'Italiana" .

 

 

Durante il fascismo, allo scopo di acquisire capacità tecniche, frequenta i set di registi già affermati come Genina, Camerini e realizza Pioggia d'estate (1937).
La stagione neorealistica, che abbraccia il primo dopoguerra, viene propiziata dall'uscita nelle sale cinematografiche di Roma città aperta(1946) di Rossellini.

È la stagione in cui si assiste a un vero e proprio crogiolo di produzioni e regie: cinema alto e cinema basso, neorealismo e film di genere s'intrecciano in maniera quasi indissolubile. In questo periodo Monicelli si fa apprezzare sia come sceneggiatore sia come regista, pur non condividendo il progetto estetico e pedagogico del Neorealismo; egli infatti afferma che: <<L'Italia non era così […] Non ci si riconosceva nessuno, se non una piccola cerchia di malati di cinema>> - aggiungendo inoltre che - <<il Neorealismo non l'ha poi fatto nessuno. L'unico regista neorealista è stato Rossellini che poi a un certo momento ha smesso anche lui di farlo. […] Il Neorealismo non riguarda la realtà delle cose che uno riprende, ma la posizione morale dell'autore verso la realtà che vuole rappresentare. Anche un film di fantascienza può essere neorealista>> .
Sul finire degli anni '50 è proprio Monicelli ad aprire la stagione della "Commedia all'Italiana", grazie alla realizzazione de I soliti ignoti  (1958) e alla direzione, in seguito, di capolavori come La grande Guerra (1959), I compagni (1963), L'armata Brancaleone (1966), Romanzo Popolare (1974).

 

 

 

La Commedia all'Italiana nasce dalla fusione di più elementi artistici: la commedia dell'arte, le maschere, il teatro dialettale, la farsa; sorge sulle ceneri del Neorealismo, e infatti, ne aumenta il ritmo e la spettacolarità. L'autore e gli attori fanno ridere il pubblico pur non evitando la tragicità della vita e la morte stessa: <<Io ritengo che la Commedia all'Italiana abbia avuto la stessa funzione e la stessa importanza della Commedia Americana anni '30-'40, che sia servita, cioè, a dare un'immagine dell'Italia e degli italiani agli italiani stessi>> .
 

Ma se si guardano i suoi tre film giovanili: Il cuore rivelatore, I Ragazzi della via Paal e Pioggia d'estate e le sei coregie con Steno che [da Totò cerca casa (1949) a Totò e i Re di Roma (1952)] rientrano nel comico-farsesco, ci si rende conto di come questi abbiano poco a che fare con la Commedia all'Italiana. Da ciò s'intuisce che non si può uniformare, né etichettare la filmografia monicelliana: egli realizza, nell'arco della sua lunga carriera, tanti film diversi l'uno dall'altro: da quelli in collaborazione con Steno a la Commedia all'Italiana, dai film in tono comico a quelli più autoriali e sperimentali.

In questa grande diversificazione Monicelli fu sempre in grado di mantenere l'equilibrio tra film di botteghino e film più impegnati: un artigiano di lusso, come i più lo hanno definito.
Circa gli aspetti di lavorazione adottati dal nostro nelle sue opere, gran rilievo ha la sceneggiatura: <<[…] in virtù del suo apprendistato sceneggiatoriale, coordina con polso saldo, la lunga fase di preparazione del copione, […] ricopiando a mano il testo conclusivo, che sul set viene tradotto in immagini senza scarti rilevanti>>.

Per Monicelli la sceneggiatura è fase importante nella realizzazione di un film perché deve essere in grado di risolvere i problemi che sorgono sul set e di dare un indicazione sulla scelta dei personaggi, dei luoghi e degli abiti. Tutto ciò è possibile solo e unicamente attraverso un'attenta e particolareggiata creazione a tavolino, in maniera tale che la traduzione pratica del film diventi una formalità.

 

 

 

Al pari della sceneggiatura, anche il soggetto è fondamentale: Monicelli spiega che <<si può fare un film di sole gag, ma senza il soggetto è difficilissimo […] Si è talmente facilitati se il soggetto c'è, se ha un bell'arco…>> .
Sul piano stilistico Monicelli non realizza inquadrature narcise, anzi, in verità non le cura per nulla. Pur essendo ricca, un'inquadratura non deve prevaricare il limite del valore assegnatole dal regista, perché il film non è la semplice addizione di belle inquadrature, il film è il montaggio.


Monicelli è sempre avaro di primi piani poiché è profondamente convinto che un attore deve essere in grado di lavorare con tutto il corpo, alla maniera di Chaplin e Keaton: in quest'ottica è importante l'ambiente e quindi lo scenografo che lo allestisce. Egli cerca di rappresentare i luoghi, le cose, gli uomini del mondo, presentandoli così come esattamente sono , cercando di farlo nella maniera più naturale possibile: non forza né la composizione delle immagini , né gli stacchi, né i passaggi da un' immagine all'altra.

 


Nonostante la filmografia di Monicelli segua una linea autoriale (che comprende una dozzina di film), ben presto ci si accorge di come egli prediliga <<più raccontare che raccontarsi, descrivere il mondo degli altri piuttosto che esibire la propria visione del mondo, che pure è latente in ogni suo film. Si potrebbe dire che egli sia il più metteur en scène e il meno auteur dei registi della Commedia all'Italiana>> .

 

 

Un'altra particolarità che caratterizza il regista toscano e la sua filmografia è sicuramente la necessità di raccontare storie di gruppi, e mai di singoli; in tal senso ricordiamo il gruppo dei soldati ne La Grande Guerra o il gruppo di amici de L'armata Brancaleone e Amici miei atto II e così via. Ma la vera costante del suo cinema è la comicità: quella intrisa di cattiveria, che, quando si sa usarla, funziona in maniera straordinaria. Questo tipo di comicità in Italia è cresciuta nella Commedia dell'arte e proviene dalle marionette di cui Totò è il rappresentante assoluto; Totò e Monicelli, insieme, collaborano a sei film: Totò cerca casa, Guardie e Ladri(1951), Totò e i Re di Roma, Totò e Carolina (1958), Risate di Gioia (1960).

A distanza di anni, un grande rammarico del regista è quello di aver molto spesso legato Totò a sceneggiature vincolanti che non hanno permesso all'attore di dar sfogo all'estro anarchico che lo ha sempre caratterizzato: <<Totò era una maschera ed è paragonabile solo ai grandi come Chaplin, Keaton e i fratelli Marx. Ma noi che l'abbiamo diretto gli affidavamo parti troppo "umane" e lui finiva così per perdere inevitabilmente quella comicità surreale ed astratta che era riuscito a sprigionare al massimo quando faceva la rivista e l'avanspettacolo>> .

Totò trova il modo di modificare il proprio tipo di comicità in relazione alle esigenze di quel periodo riuscendo a delineare alla perfezione i tratti dell'uomo disgraziato neorealista: <<Il personaggio del Totò di quegli anni è tipico degli anni '50, un piccolo borghese, anzi, un sottoborghese in combattimento sempre con lo stipendio, la fame, il posto, la disoccupazione, […] Totò rappresentava proprio questo tipo di italiano sottosviluppato, perciò credo che il suo grande successo, la sua grande popolarità, fossero dati proprio da questo>> .
Ed è in Totò cerca casa, Guardie e Ladri e Totò e Carolina che tali caratteristiche vengono alla luce.

 


1.1 Totò cerca casa

Nel 1949 Steno e Monicelli, nonostante qualche ritrosia, dirigono il loro primo lungometraggio dal titolo Al diavolo la celebrità(1949); il film, composto da una grande varietà di attori (tra cui Ferruccio Tagliavini tenore di successo dedicatosi al cinema), non riscuote il successo sperato specie sul piano commerciale. In questo periodo i due lavorano con Macario in tre film Neorealisti. L'esperienza sarà molto utile per loro quando, di lì a poco, si troveranno a lavorare con Totò.

L'attore napoletano viene scritturato da Ponti per la collaborazione ne L'imperatore di Capri (1949) di Comencini le cui riprese, conclusesi prima del termine definito, permettono al produttore di proporre a Totò la realizzazione di un altro film nello stesso anno.
Totò cerca casa nasce, quindi, come un "film di recupero" (vengono definiti così tutti quei film realizzati in contemporanea a un altro principale per ottimizzare gli investimenti).
Ponti sceglie la coppia Steno-Monicelli sia come sceneggiatori che come registi: i due dapprima pensano di dar vita a una farsa antirussa dal titolo Totò ha scelto la libertà, poi decidono di trarre spunto dalla commedia Il custode di Moscariello e da un fumetto di Attalo, La famiglia Sfollatini, che grande successo sta ottenendo su un giornale umoristico dell'epoca.
Il lavoro sceneggiatoriale di Monicelli e Steno viene coadiuvato da un'altra coppia, Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli.
Ma se Al diavolo le celebrità passa sostanzialmente inosservato, Totò cerca casa riscuote un successo non solo di pubblico, ma anche di critica: è secondo nell'annata '49-'50 come incassi dopo Catene (1949) di Matarazzo.

 

 

Beniamino Lomacchio vive da sfollato in una scuola di Roma e in particolare in un'aula , visto che durante il periodo estivo non ci sono lezioni. Ma, proprio a causa della ripresa delle lezioni Beniamino deve trovare una nuova soluzione per sé e per la propria famiglia. Grazie al suo lavoro di impiegato comunale, riesce a ottenere un documento di assegnazione di un alloggio. Ottiene un'abitazione: una nuova dignitosa dimora ubicata, però, all'interno di un cimitero del quale Beniamino diviene custode. Dopo una notte di paura fugge e, grazie a Checchino, fidanzato di Aida, sua figlia, ottiene l'abitazione di un pittore ma anche qui le cose sembrano non andare per il meglio. Decidono di accasarsi al Colosseo e qui scoprono di aver vinto un milione di lire ad un concorso a premi.

Adesso possono permettersi una casa: dopo alcune ricerche riescono a trovare quella che fa per loro. In realtà è una truffa: la casa è affittata ai Lomacchio, appunto, a un gruppo di turiste inglesi e a un cinese. Dopo un'altra notte di guai, Beniamino, preso per pazzo, viene condotto in manicomio dove si accampa con tutta la famiglia.

 

 

Totò cerca casa fa convivere al suo interno l'avanspettacolo, la farsa, la rivista da una parte e il realismo, la vita comune, l'Italia distrutta dalla guerra dall'altra, dando vita a un intreccio che fa dell'ironia la sua arma più tagliente. <<Con Totò cerca casa si voleva colpire un obiettivo abbastanza diffuso: fotografare i problemi che nascevano nel dopoguerra, i conflitti, l'epurazione, il fascismo mimetizzato, la falsa democrazia, il problema dell'alloggio, la corruzione e il qualunquismo. Volevamo dare il ritratto di un'epoca e di una società in ebollizione.>> Una società dilaniata dalla guerra e dalla povertà conseguente, che si compone sempre più di quei personaggi tipici che in qualche modo la caratterizzano, e parliamo di quegli uomini disposti a tutto pur di guadagnare qualche lira, esibendosi ogni giorno con grande maestria nell'arte dell'"arrangiarsi": <<Ad esempio - racconta Monicelli - per risolvere i trasporti pubblici, un privato prendeva dei camioncini e ci scriveva sopra "Piazza del Popolo", la gente saliva, dava mezza lira, e via… era un pullulare di questi episodi.>> .

E i riferimenti a questo "tirare a campare" della società di allora li ritroviamo anche nel film: Totò/Beniamino ruba un uovo al portiere della scuola in cui è accampato e una volta scoperto finge di saper covare per sfuggire all'ira dell'uomo derubato o, ancora, approfitta di un documento di assegnazione di un alloggio al cimitero destinato ad un'altra persona; ma Totò/Beniamino è anche derubato, coinvolto in una truffa di una casa venduta a più inquilini (ai Lomacchio, appunto, a un gruppo di ragazze inglesi e a un cinese).


Ma alla coppia d'autori pare non sfuggire nulla: ironizzano sulla politica e in particolare sul nuovo sfruttamento che la politica fa della retorica, con comportamenti tanto altezzosi quanto stupidi e inutili in un contesto siffatto. La vittima sacrificale di Totò/Beniamino, più che Aroldo Tieri/Checchino, fidanzato di Aida, o Mario Castellani immobiliare imbroglione, è il sindaco Enzo Biliotti, impegnato in discorsi, inaugurazioni di monumenti e cene elettorali mentre tante famiglie non hanno casa, costrette a vivere nei locali di Cinecittà. Emblematica è, in tal senso, l'esclamazione: <<Sfollati di tutto il mondo unitevi>> che Totò/Beniamino in più di un'occasione ripete, facendo il verso ad alcuni politici di allora.

 

Monicelli in Totò cerca casa denuncia anche quella che egli definisce, la "falsa democrazia" che si afferma in quei primi anni del dopoguerra: <<Il pubblico italiano era ancora molto ingenuo. Le campagne elettorali si vincevano a colpi di Madonne che piangevano o di miracoli; la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza assoluta attraverso la mobilitazione delle parrocchie e dei preti>> .

E proprio questa ingenuità degli italiani, di cui ci parla Monicelli, viene documentata nel film, dalla affannosa ricerca di Analia/Alda Mangini, moglie di Beniamino, del tagliando vincente che le permetterebbe di vincere i soldi per l'acquisto della casa; i Lomacchio vincono un milione di lire ma il denaro, così come ingenuamente era stato vinto, altrettanto ingenuamente viene perso, colpevole l'imbroglione/Castellani.


Nonostante il film sia fortemente improntato sulle caratteristiche principali del Neorealismo, vi è spazio anche per l'avanspettacolo e per le burle di Totò. Alcune gag sono prese direttamente dai teatri farseschi: la scena del cimitero e della notte di paura della famiglia Lomacchio, è una farsa che il teatro comico napoletano faceva molto spesso e, inoltre, la commedia Il custode e La camera fittata per tre sono state affrontate spesso in passato da Totò sui palcoscenici dell'avanspettacolo.


Ma c'è dell'altro: la scena in cui l'attore timbra all'impazzata tutto quanto gli capiti sotto tiro (compreso il sedere del sindaco) è la riproposizione di un celebre sketch de L'Orlando curioso o, ancora, la gag girata da Totò con Giacomo Furia, un signore apprensivo allo sportello dell'anagrafe alla ricerca di un nome per suo figlio, è girata completamente a "soggetto"(Steno e Monicelli rendono quest'ultima scena più pungente proponendo, per il neonato, nomi "imbarazzanti" come Palmiro o Tito, di chiaro riferimento politico.


Ben presto ci si rende conto di come Totò cerca casa sia un mélange di umori (caratteristico del miglior cinema italiano) che appare già evidente dalle fonti: si passa dai fumetti di Attalo al Neorealismo, dalla farsa all'attualità più vicina e dolorosa.

 

 

 

Totò per la prima volta s'immerge nel realismo: si muove in luoghi, in spazi completamente diversi da lui: <<Trasformammo Totò - afferma Monicelli - in una figura più umana e Neorealistica>> , e fu lo stesso regista, più che Steno, a spingerlo verso questa nuova via: << […] prima il suo cavallo di battaglia era fare la marionetta in film surreali come Fifa e arena(1948), noi lo inserimmo nel filone del Neorealismo: la sua comicità vedeva la farsa sposarsi con elementi realisti>> .

E proprio come facevano Charlot e Keaton, che scatenavano la loro comicità nella realissima miseria americana, Totò parla, corre, si nasconde tra le macerie di una Roma da ricostruire. L'amore di Monicelli per il cinema muto lo si percepisce dai riferimenti nel film: la scena del cimitero in cui una vedova, in realtà uomo, piange il defunto marito dinnanzi ai Lomacchio, è una vera e propria citazione di Keaton e, la scena dell'auto che ha una bomba collegata ai freni viene resa ancora più frenetica e surreale dall'utilizzo delle immagini accelerate.


Totò rappresenta l'arma d'attacco alla nuova Italia che va costituendosi, infatti Beniamino ne distrugge il simbolo nel finale di un film che inizia come un documentario sull'Italia da ricostruire e si conclude con la distruzione letterale di un monumento alla ricostruzione. <<Ma se si riconosce a Totò quella spinta anarchica e anticonformista che ne ha segnato la rivalutazione negli anni '70, si tratta allora dell'attacco più lucido e più sottile alla retorica post-resistenziale dell'Italia ricostruita (e normalizzata)>>.
E sarà appunto questa comicità irriverente, che gioca con il potere, che avvicinerà, in futuro, Totò a Pasolini <<che vedrà in lui il massimo esponente dell'Italia non omologata dal benessere>> .


Con Totò cerca casa l'attore napoletano entra in una nuova fase che lo porta dritto verso due tendenze opposte tra loro: la prosecuzione della farsa da un lato, la rivalutazione della propria maschera dall'altro; i suoi film successivi, infatti, seguiranno tale spaccatura.
Per la promozione del film, Ponti inonda mezza Italia di manifestini con su scritto: <<Sto cercando casa, aiutatemi a trovarla!>> firmato <<Totò>>. Totò cerca casa riscuote un successo inaspettato forse perché parla delle necessità e delle difficoltà del popolino che si consola scoprendo che anche Totò ha i suoi stessi guai. I suoi film diventano la consolazione dell'Italia povera, dei contadini e degli operai che non riescono a riconoscersi in La terra trema (1948) di Visconti.



1.2 Guardie e ladri

Un anno dopo la prima esperienza di Totò cerca casa, Steno e Monicelli continuano la loro attività registica con due film. Il primo, E' arrivato il cavaliere(1950), è cucito su misura per il protagonista, Tino Scotti; il secondo, Vita da cani(1950), nonostante l'attore principale sia Aldo Fabrizi, è da considerarsi a tutti gli effetti un film collettivo grazie alla collaborazione di vari personaggi come Delia Scala, Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni e Aldo Giuffrè.


Nei due anni che dividono Totò cerca casa da Guardie e ladri Totò si dà un gran da fare; realizza nove film, di cui ben cinque diretti da Carlo Ludovico Bragaglia [Totò Le Mokò (1949), Totò cerca moglie (1950), Figaro qua…Figaro là (1950), Le sei mogli di Barbablù (1950), 47 morto che parla (1950)], due da Mario Mattoli [Tototarzan (1950), Totò sceicco (1950)] e uno da Eduardo De Filippo (Napoli milionaria (1949/1950)].


Tra il '51 e il '52 si realizzano le riprese di Guardie e ladri, diretto dall'attivissimo duo di registi-sceneggiatori. Il soggetto di partenza è di Pietro Tellini, giovane talentuoso
(a detta dello stesso Monicelli), ma troppo sbandato per avere la costanza di scrivere; la sceneggiatura, invece, è il frutto della cooperazione di cinque persone: Mario Monicelli, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari e Aldo Fabrizi.


In realtà Guardie e ladri avrebbe dovuto dirigerlo Zampa che, già all'inizio del '49, ne aveva annunciato l'uscita, ma, essendo il regista una delle vittime preferite del regime e, consapevole dei rischi a cui il film sarebbe andato incontro, decide, dopo qualche mese, di rinunciarvi: <<[…] dopo aver portato a termine il trattamento di Guardie e ladri […] rinunciai […], pensando ai limiti di varia natura che, durante la realizzazione del film, mi sarei dovuto imporre>>.
Il film viene prodotto dalla neonata casa di produzione Ponti-DeLaurentiis e l'idea di far collaborare due fra i comici più popolari di quel momento è proprio di Ponti. Fabrizi e Totò hanno a che fare con un soggetto malinconico che prende le distanze dalla rivista e dall'avanspettacolo: il primo aveva già dimostrato ai più di sapersi destreggiare anche nei ruoli più drammatici (grazie alla sua interpretazione in Roma città aperta nel 1945), mentre il secondo è una vera e propria scommessa, considerato ormai maturo per abbandonare le farse di Mattoli e Bragaglia.
Quando nel '52 viene presentato dopo alcune traversie censorie, il film ottiene un grandissimo successo di pubblico e di critica: Guardie e ladri diventa uno dei pochissimi lungometraggi italiani ad essere esportato, Totò riceve il Nastro d'Argento come miglior attore protagonista mentre a Cannes il film viene premiato per la migliore sceneggiatura. >>articolo correlato: Il nastro d'argento<<



Ferdinando Esposito vive di piccole truffe, tra le quali la preferita, oltre che la più semplice, è quella di truffare i turisti americani. Uno di questi, però, incontra nuovamente Esposito: è infatti il presidente di un comitato previsto dal Piano Marshall per l'assistenza ai bambini poveri, ed Esposito si è presentato con una torma di ragazzini facendo credere che sono tutti suoi figli. Ferdinando viene allora arrestato dal sergente Bottoni, ma riesce a fuggire.

L'americano fa intervenire il consolato e Bottoni, se entro tre mesi non riacciufferà il ladro, sarà sospeso dal servizio. Bottoni non dice niente in famiglia e si mette sulla pista di Esposito: riesce a saper l'indirizzo del ladro e fa sì che le famiglie diventino amiche. Quando però lo deve arrestare, vede le ristrettezze economiche in cui la famiglia Esposito vive, e la coscienza lo frena. Sarebbe perfino disposto a rilasciare il ladro, ma Esposito si rende conto che a quel punto sarebbe il questurino a finire nei guai: è lui stesso che si fa arrestare, dopo essersi messo d'accordo con Bottoni (le famiglie non sapranno niente e Bottoni accudirà i parenti di Esposito).

 

 

 

 

Guardie e ladri sin dalle prime battute si presenta come un film estremamente attuale. Viene fotografata l'Italia del dopoguerra nel suo lato più vero e crudo. Parla di un'intera generazione (che coinvolge anche lo stesso Monicelli) e di un momento (la rinascita dalle macerie della guerra) che registra l'arrivo dei turisti americani e il brulicare di mille ladruncoli pronti a rifilare "la solita patacca" allo straniero e a rubare i pacchi dell'UNRRA destinati alle famiglie.


Steno e Monicelli realizzano la loro costruzione affidandosi ai due più solidi pilastri della comicità italiana, Totò e Fabrizi: Guardie e ladri è fortemente incentrato su di loro e sulla graduale scoperta che l'uno fa dell'altro lungo tutto il film. Scoprono di essere uguali anche se in ruoli diversi, hanno gli stessi obblighi, gli stessi doveri: hanno entrambi una famiglia da sostenere ma la vita li mette contro. Tale conoscenza reciproca, nata al termine dell'inseguimento all'Acqua Acetosa, culmina nel discorso finale tra le scale del palazzo di Totò/Ferdinando Esposito; emblematiche sono, in questa situazione, le parole di Fabrizi/Lorenzo Bottoni che sintetizzano l'essenza del film e quindi anche del rapporto tra i due: <<La vita è come un gioco: c'è chi vince e chi perde. Io non è che voglio vincere ma tu… tu hai perso>>.

 


Nella più o meno evidente balbuzie di Fabrizi/Lorenzo Bottoni leggiamo l'estremo imbarazzo che prova a comunicare una vittoria che acquista sempre più il sapore di una sconfitta. Dopo un' "ultima cena" all'insaputa dei commensali, Totò/Ferdinando Esposito si dirige verso il suo destino in compagnia del suo detrattore: ma le parti s'invertono, è il ladro che spinge la guardia verso la prigione.



Gli ambienti sono quelli tipici neorealisti, desolati, senza tracce di progresso: è l'ambiente della povera gente, di quel popolino che ogni giorno fa la guerra con la fame, con la vita. Ed è proprio la fame che regge le fila dei personaggi: li fa muovere, parlare, correre. <<La fame cronica che anima la maschera di Totò viene vista sotto la lente della disperazione, così come il suo rapporto con il poveraccio che, per sfuggire alla stessa fame deve dargli la caccia per tutto il film>>. Se da un lato la guardia Bottoni non può permettersi di perdere il posto di lavoro per sostenere la propria famiglia, dall'altro gli Esposito sono costretti a cenare col caffèlatte o a "pescare" un salame dalla salumeria sottostante.
 

Ma la fame e la miseria diventano essi stessi strumenti della comicità: permettono di documentare gli artifici di uomini comuni che, seppur posti l'uno contro l'altro, hanno il medesimo obiettivo. <<In Monicelli si percepisce sempre la volontà di fotografare un paese e dei personaggi "reali" seppure distorti dalla sua circolare e contundente vena grottesca >> .
Ogni situazione comica del film sembra non essere fine a se stessa ma ha un immediato contrasto drammatico con la realtà dei due attori: si passa dalla paura di Totò/Ferdinando "di essere tubercoloso" alle riverenze fatte da Lorenzo/Fabrizi a "Sua eccellenza" al telefono. E' una comicità immediata che però lascia l'amaro in bocca.


Come afferma Enrico Giacovelli, questo <<è il film dell'equilibrio massimo, quasi chapliniano, fra comico e tragico>> . L'incontro tra Fabrizi e Totò permette di sviluppare un'analisi tra due forme di comicità completamente diverse: il risultato è qualcosa di molto simile all'effetto "combustione lenta" caratteristico del duo Stanlio e Onlio. Totò è infatti abilissimo nel provocare volontariamente o involontariamente Fabrizi, che sembra sopportare con la pazienza bonaria dei "grassi", fino a che scoppia di botto e fragorosamente.


In Guardie e ladri, Totò e Fabrizi s'immergono completamente nell'atmosfera neorealistica quasi dimenticando il loro passato rivistaiolo: nella scena finale del film, mentre Lorenzo/Fabrizi accompagna Ferdinando/Totò verso la galera, odono, da un'osteria vicina, un motivetto familiare che non riescono a decifrare; Totò prova fischiettarlo per farselo tornare in mente, ma inutilmente. Si tratta de La fioraia del Pincio, il popolarissimo motivo che la Magnani cantava nel '40 in Quando meno te l'aspetti, compagnia Grandi Riviste Totò. Ferdinando e Lorenzo non la riconoscono, Totò e Fabrizi, invece, fingono di averla dimenticata, quasi a voler volgere le spalle al periodo della rivista e a incamminarsi verso una nuova carriera.

 

 

 

Totò viene sempre più spinto verso una dimensione neorealistica e sociale: <<Io ho favorito il passaggio di Totò al Neorealismo - afferma Monicelli - limitando le sue caratteristiche di comicità surreale che lo avevano caratterizzato in precedenza. […] Ho un gran rimpianto per aver abbandonato subito la farsa, perché Guardie e ladri è già Commedia all'Italiana; il ritmo della farsa è un qualcosa che tutti dovrebbero avere presente>>.


La mutazione della maschera dell'attore napoletano , nel film si avverte anche a livello visivo: Totò ha i capelli disordinati, la barba sfatta, il baffetto "Neorealista" (definito così perché lo utilizzerà solo per quei film). <<Il burattino surreale diventa una realistica figura di uomo centro-meridionale con una classe sociale collegabile tra il proletariato e la piccola borghesia>> ; della farsa, del clown non se ne ritrovano tracce, <<è un Pulcinella emigrato a Roma, che ha messo su famiglia e con l'esperienza precedente conserva solo il legame di essere perseguitato dal destino e di avere Mario Castellani come complice>>.
Tale scissione è documentata anche da Lamberto Sechi che, in una critica dell'epoca, paragona Totò al burattino per eccellenza: <<In Guardie e ladri, Totò, come Pinocchio al termine delle sue avventure , lascia in un canto il suo corpo di legno, la sua mimica abituale, le espressioni ormai famose, non è più Totò soltanto ma quel personaggio, un povero ladruncolo interpretato dall'attore Antonio De Curtis>>.


Se Totò cerca casa è sorretto da un soggetto che, seppur neorealistico, è estremamente legato alla rivista e alla farsa, Guardie e ladri si svincola da tale legame, i suoi attori sono veri, reali, vicini: sembra quasi possibile poter toccare la divisa di Lorenzo Bottoni o l'impermeabile di Ferdinando Esposito.
La pellicola, al passaggio dalla commissione di censura, ha qualche guaio: non è tollerabile che un agente di pubblica sicurezza stringa legami con un ladro, e che quest'ultimo si lasci arrestare per aiutare la guardia: è mettere la guardia e il ladro sullo stesso piano.
Le modifiche apportate al film furono di poco conto: <<Ci fu una grossa polemica - ricorda il regista toscano - e dovemmo cambiare alcune cose del film già girato, ma non granchè>>.


Il successo di Guardie e ladri è imponente e rappresenterà per Monicelli e Totò una sorta di spartiacque; infatti tutti i film in cui Monicelli (con o senza Steno) dirigerà ancora Totò saranno, in qualche modo, tutti figli di Guardie e ladri; e lo saranno anche altre esperienze prestigiose come Dov'è la libertà..? di Rossellini e L'oro di Napoli (1954) di De Sica.


 

1.3 Totò e Carolina

Subito dopo la realizzazione di Guardie e Ladri, tra il '52 e il '53 Steno e Monicelli girano Totò e i re di Roma, Totò a colori (1952) e Le infedeli (1953). Ma le strade dei due registi paiono dividersi definitivamente: la motivazione è da ricercare non tanto in una differenziazione artistica, che pur andava delineandosi, ma nella frenesia realizzativa di Steno che, avendo moglie e figli da mantenere, aveva indubbio bisogno di lavorare, mentre Monicelli preferiva girare con calma potendo usufruire delle pause tra un film e l'altro. Mentre Steno gira Totò e le donne(1952) Monicelli realizza Le infedeli: i due film portano la firma di entrambi solo per pure ragioni contrattuali.
Le infedeli si presenta complesso e rischioso, distaccato dalla farsa alla quale Steno rimane molto legato, ed <<è singolare che il film che per primo indica la separazione tra Steno e Monicelli sia un melodramma, genere che non frequenterà successivamente, preferendo calare conflitti e contrasti dentro l'agrodolce delle sue commedie>> .


Senza dubbio la coppia Steno-Monicelli ha contribuito in maniera importante alla ripresa e alla rivalutazione del cinema italiano che cercava la propria identità dopo il disastro della seconda guerra mondiale; ha contribuito alla realizzazione di uno star system da contrapporre a quello di Hollywood; ed infine, ha indicato un metodo di lavorazione semplice e veloce che si afferma attraverso la realizzazione di una sceneggiatura solida.


Il successo de Le infedeli spinge Monicelli a dedicarsi sempre più ad opere d' "autore": questo inevitabilmente lo porta ad abbandonare il lavoro con Totò, pur continuando a collaborare con l'attore napoletano già nel '53, per altri due film di Mattoli: Un turco napoletano (1953) e Il più comico spettacolo del mondo (1953).


Mentre sta già pensando alla Commedia all'Italiana, Monicelli realizza il suo ultimo film come "regista di Totò": Totò e Carolina (1953).
Il film, che affianca Anna Maria Ferrero a Totò, nasce da un soggetto di Flaiano sceneggiato da Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Mario Monicelli e Suso Cecchi d'Amico.

 

Totò e Carolina ottiene un discreto successo di pubblico e di critica, pur arrivando nelle sale cinematografiche mutilato a causa di una censura impietosa >>visualizza il documento di censura della Presidenza del Consiglio dei ministri in originale in formato PDF<<; di fatto verrà ricordato più per i tagli imposti che per il valore dei suoi contenuti. L'agente Antonio Caccavallo, in servizio alla Buon Costume, arresta per sbaglio durante una retata a Villa Borghese Carolina De Vico, una ragazza di campagna che per caso si trovava lì. La ragazza, che appare psicologicamente provata, cerca di suicidarsi con i sonniferi e viene portata in ospedale da Caccavallo stesso. Temendo uno scandalo e una campagna di stampa, il commissario ordina all'agente di portarla al paese e di affidarla ai parenti.


Il viaggio in jeep si rivela un tormento per il poliziotto, che teme che la ragazza tenti nuovamente il suicidio. In paese nessuno, neanche il parroco, vuole tenere con sé Carolina, anche perché si è venuto a sapere che la ragazza è incinta. Caccavallo è costretto a riportala con sé a Roma, e qui, per liberarsene, cerca di farla fuggire con un atletico ladro che ha nel frattempo arrestato. Siccome il giovane non si fida troppo della situazione, è Carolina stessa che colpisce il poliziotto per favorire la fuga; ma subito dopo si pente e rimane a curarlo mentre il ladro e se la dà a gambe. Al suo risveglio, l'agente Caccavallo decide di adottare la giovane e di tenerla in casa con sé.


<< Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda è vissuta da Totò trasporta tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi e sono sempre riscattati dal quel clima dell'irreale che non intacca minimamente la riconoscenza ed il rispetto che ogni cittadino deve alle forze della Polizia>>.


Questa è la schermata che appare nella prima scena del film e che viene sovrimpressa dalla Commissione di Censura in due anni di combattimenti e arrabbiature. Il film, terminato a cavallo tra il '52 e il '53, farà il suo debutto nelle sale cinematografiche nel '55.
Qualcosa di simile era già avvenuto per Guardie e ladri: << […] Anche qui - afferma Monicelli - c'era un rappresentante dello stato, una guardia che stavolta doveva accompagnare al paese con un foglio di via una donna diciamo di facili costumi; […] I tagli furono molti di più rispetto a Guardie e ladri>> .

 

 

 

 

Il motivo di tale accanimento è da ricercare innanzitutto nella figura di Totò che, da sempre considerato una marionetta, un clown, si ritrovava a indossare i panni del questurino, della guardia accondiscendente, priva di autorità e ridicolizzata; ma quello che sembra davvero sovversivo per la Commissione è il camion di comunisti che si dirige in un paese per un comizio: vengono ritratti come uomini gentili e disponibili (nel film aiutano Totò/Antonio Caccavallo e Ferrero/Carolina usciti di strada con la jeep).
Si pensa, inoltre, che esista una lista con i nomi dei registi comunisti italiani e che sia in mano della Commissione di censura; nonostante Monicelli non sia iscritto al P.C.I. decide di farsi sentire: <<In tal caso è chiaro che basta pochissimo oggi per essere giudicato comunista. Basterebbe, oggi, rifare Ladri di biciclette(1948) per vedersi negare il visto di censura>> ; del resto, il Ministero dello spettacolo era stato creato cambiando il nome al Minculpop.


In tutto si contarono 31 tagli e 23 battute modificate: Monicelli ricorda che <<quando il film uscì non si capiva più chi era quel gruppo d'imbecilli con le bandiere su un camion, né cosa facessero! Restava solo la storiella del questurino che alla fine si portava a casa la ragazza, magari con un'aria un po' equivoca>>.


Ma abbandonando l'astiosa vicenda censoriale che portò, come affermato in precedenza, a parlare del film più di quanto si sarebbe fatto, ci si rende conto di come Totò e Carolina s'inserisca in un periodo del cinema di Monicelli di allontanamento dal Neorealismo e dal melodramma, in favore di un progressivo avvicinamento alla Commedia all'Italiana, commistione tra il cosiddetto "Neorealismo rosa" e la farsa.


<<Si avverte pur sempre l'impaccio di una scelta ancora troppo esibita, tale da frenare la surreale genialità di Totò; senza per questo rendere completamente autonome le risorse narrative e umoristiche del film. Monicelli è, evidentemente, ancora alla ricerca del proprio stile, attuata seguendo la rotta, per lui sempre molto chiara, della messa in scena del mondo>> .
Il film si presenta come una storiella piacevole che, seppur presentando già alcuni aspetti della Commedia all'Italiana, vuole essere ancora legata al Neorealismo: Monicelli utilizza molto le riprese in esterna e cura moltissimo i particolari scenografici con l'intento di recuperare quella atmosfera.

 

Il regista toscano non rinuncia a parlare del mondo e in particolare di quell'Italia che, in Totò e Carolina, appare ancora troppo legata a facili moralismi e a pregiudizi ottusi che non risparmiano nemmeno la Chiesa e gli uomini che la compongono.


Carolina è il corpo del reato, ha in grembo il figlio di un adulterio: inammissibile per parenti e compaesani che non hanno nessuna intenzione di accudirla. Per lei, ancora troppo giovane per avere la forza di reagire, non rimane altro che la morte, poiché sa che la società non accetta lei e mai accetterà suo figlio. L'accompagna un ingenuo questurino che, se in un primo momento è duro e intransigente, poi diventa sempre più comprensivo, disgustato di ciò a cui assiste.

C'è sempre qualcosa o, ancor di più, qualcuno per cui vale la pena vivere, e Carolina, quel "qualcuno" lo ha in sé. Dopo un dialogo chiarificatore Totò/Salvatore Caccavallo decide di portarla a casa di un "fesso" (a casa sua): ma non è un opportunistica relazione carnale, è il legame di una vera e propria solidarietà fra appartenenti alla stessa categoria vilipesa e trascurata dalla società.
 

 

 

Documento di censura di Totò e Carolina della Presidenza del Consiglio dei ministriFilippo Sacchi afferma su "Epoca" che <<Totò e Carolina vale soprattutto perché rappresenta un tentativo purtroppo rarissimo tra noi, di farsa intelligente […] mai vista nel nostro cinema dove il comico è sempre o stupido o scurrile>>.


Pur non essendoci quasi più traccia dell'avanspettacolo, vi sono alcuni momenti spassosi (concessi dalla presenza di Totò): la scena in cui Totò/Salvatore Caccavallo e Ferrero/Carolina raggiungono in jeep il camion di manifestanti comunisti ai quali il questurino chiede di "buttarsi a destra!" o, ancora, l'essere "terrificante" nel quale Totò si trasforma dopo un tuffo in uno stagno (con tanto di coperta e fazzoletto legato sotto il mento).
E' possibile riscontrare quasi un'ideale continuazione tra Totò e Carolina e Guardie e ladri: si passa dalle fughe di Ferdinando Esposito agli inseguimenti della guardia Caccavallo; Totò, da ladro dal cuore tenero, si tramuta in guardia dal cuore ancor più tenero.


Anche in questo film il Totò-personaggio prende il sopravvento sul Totò-maschera, come già era avvenuto nel film precedente, ma Monicelli ha intenzione di concludere qui l'immissione di elementi a cavallo tra il Neorealismo e il melodramma nella figura di Totò. Infatti il regista toscano decide di defilarsi lasciando l'attore napoletano a Steno, che guarda al cinema con maggiore disincanto.


Nel suo percorso di avvicinamento alla Commedia all'Italiana, Monicelli, nel '55, ricompone la coppia Alberto Sordi-Franca Valeri, già valorizzata da Steno in Piccola posta (1954), e la rende protagonista di Un eroe dei nostri tempi (1955).
Totò invece, subito dopo le riprese di Totò e Carolina, effettua una sorta di ritorno alle origini collaborando con Mattoli in Miseria e Nobiltà  (1954): le prossime esperienze realistiche saranno (pur non svolgendo ruoli da protagonista) con De Sica in L'oro di Napoli e con Bolognini in Arrangiatevi! (1959). <<Articolo correlato: Totò visto da Mario Monicelli>>

 

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