Così
conobbi Totò e, nei limiti delle nostre due timidezze, diventammo quasi amici. Totò era
un " signore ", perlomeno del signore meridionale aveva la calma, la tolleranza,
la cortesia.
Questa fu la prima impressione. Salutava togliendosi il cappello, non faceva
mai circolo attorno a se, non raccontava storielle, ne cadeva preda di quelle concitate
allegrie o depressioni che, nel lavoro del cinema, sono il prodotto delle lunghe e
inspiegabili attese.
Dagli uomini della troupe veniva chiamato principe. Anche il duca Caracciolo, che era l'aiuto regista, lo chiamava principe. Prima di iniziare una scena,
sentii una volta l'operatore Tonti che implorava: " Per favore, le Altezze mantengano
un dignitoso silenzio ".
Totò era infatti sai il Principe Antonio Focas Flavio
Comneno de Curtis di Bisanzio, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero. Mi
chiesi allora perché quest'attore era così diverso da tutti gli altri e, direi, così
lontano. Sorrideva quasi sempre e con un tratto di ironia indefinibile.
Quando gli
consegnavo il foglio delle sue battute (di solito scrivevamo i dialoghi un'ora prima di
girare, sul tamburo) egli lo leggeva assumendo un'aria serissima, ma ad ogni parola, con
una sorpresa sempre nuova, il suo volto cominciava a scomporsi in una reazione continua,
apparentemente comica, e di una intensità infantile.
Un re da favola, che avesse letto il
discorso preparatogli dal ciambellano non avrebbe espresso in altra forma la sua contenuta
meraviglia. Un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi
scritte. Mi chiedevo quale fosse il segreto della sua calma e della sua sottile capacità
di interpretazione.
Mi sembrò di trovarlo proprio nella sua disposizione surreale di
fronte alla vita e alla rappresentazione italiana, cioè al realismo che è la piattaforma
del nostro teatro, e ora del nostro cinema.
Egli poteva rappresentare soltanto se stesso,
non era un tipo o un carattere proveniente dalla commedia dell'arte, un Pulcinella, un
Brighella, un Pantalone, un Arlecchino, anche se poteva improvvisarne i modi; ma una
formazione autonoma, un 'invenzione che riassumeva quei caratteri e li spostava sul :
piano della caricatura assoluta, senza legami col resto, la società, il: tempo: pura
astrazione comica.
Insomma, Totò non esisteva in natura, non era vero. In questo senso
egli si distacca da tutti gli altri attori comici, che sono derivati dalla commedia
popolare.
Diciamolo pure: i personaggi che più ci divertono, perché riflesso della
nostra realtà, sono quelli che una volta animavano il sottobosco della commedia, la
variopinta canaglia dei semplici, degli infingardi, degli spacconi, dei ladri, in una
parola dei servi: i famigli.
Anzi, da personaggi secondari sono diventati i personaggi
principali, il servo è ormai l'eroe, vive e racconta esclusivamente la sua storia. Resta
da vedere se ci è diventato per mancanza di protagonisti, per la scomparsa della società
che servivano e truffavano nello stesso tempo allegramente, o perché alla lunga le loro
storie si sono rivelate più vere. Certo è che appena Gassman si scopre una vena comica
da grande maschera diventa popolare più del suo teatro.
E non parliamo di Sordi,
Manfredi, Tognazzi, che studiano un certo tipo di italiano-maschera, lo indagano nel suo
mammismo, nella sua viltà, nella irrecuperabilità, insomma nel suo anti-eroismo. Non
parliamo di Peppino De Filippo che arriva al fondo addirittura filologico del servo , alla
sua bertoldesca 'sciocchezza.
Tutti i personaggi di questi comici esistono, ma direi che
basano la loro consistenza su una certa miserabilità umana, troppo umana. Le possibilità
che hanno di cogliere una scadente realtà, nella quale siamo immersi fino al collo, sono
quasi infinite, tanto da poter pensare che i " servi " sono la nostra vera,
continua autobiografia.
Noi ridiamo dei loro vizi modesti, della loro eterna fame di
denaro e di donne (non di amore, ma di possesso), dei guai e dei disastri in cui si
cacciano perché sono tutti nostri e il riderne finisce per farceli vedere sotto una luce
non soltanto accettabile, ma persino lusinghiera. Perchè il riso, nel peggiore dei casi
assolve, e la denuncia inorgoglisce.
Ora
Totò era lontano da tutto questo, e si può fare l'ipotesi che egli nella commedia
italiana rappresentasse la zona metafisica, non i caratteri, ma l'imponderabile, il
grottesco, l'inverosimile, i piccoli personaggi e i fatti diversi di cui è ricca la
nostra cronaca e che Sorprendono sempre per quella loro aria inventata eppure plausibile,
il morto che si rifà vivo dopo vent'anni e mette nei guai la giustizia e il paese, un
consiglio comunale che gioca al totocalcio per pareggiare il bilancio, il maiale che cade
dal terzo piano e accoppa un passante, la famiglia distrutta dagli errori dell'ufficio
anagrafico, quel sottomondo che dal Novellino al Pirandello delle novelle paesane non
sembra essere affatto cambiato; infine, un'Italia minuta, le cui leggi biologiche restano
estranee al corso della società in progresso di cui pure fa parte.
Per questo Totò va
cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera
che non fa della satira o tanto meno della sociologia ma propone esclusivamente se stessa.
Totò ha potuto essere 10 jettatore che vuole una patente per esercitare meglio la sua
funzione ( appunto, Pirandello ) o il " morto " professionista utilizzato per
sviare le indagini dei doganieri , o il padre di numerosa prole che " cerca casa
" , e la trova persino in una ex-casa chiusa.
Ha potuto fingersi gentiluomo, ladro,
generale, soldato, mondano, spia, ballerino, avventuriero, dottore, pazzo, uomo d'affari,
sonnambulo, eccetera, proprio perché la sua sola presenza caricaturale smentiva tutte le
possibili attribuzioni. Nella frantumazione della commedia dell'arte, mentre i" servi
" Brighella, Arlecchino e Pulcinella (come abbiamo visto) si sono dati a
rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a
illustrare, come in una striscia comica, dunque sempre à suivre, l'assurdo della sua
presenza in quel mondo.
Una trovata in fondo letteraria, di confutazione della realtà
fatta servendosi dei suoi propri mezzi, con una sicurezza e un disegno aristocratico, che
conferma almeno il titolo bizantino del suo inventore.
I
film di Totò restano e potremo quindi meglio ritornare a discutere sulla natura di questo
fenomeno unico. Quello che purtroppo non resta è il Totò di cui ero un fervente
ammiratore, il Totò dei palcoscenici di quartiere, nei lontani Anni Trenta, quando il suo
solo apparire e quello slogan dubitativo: "si lo so ma
." Destinato a
diventare famoso, metteva in dubbio le certezze mussoliniane e la rivoluzione fascista.
Allora Totò ci appariva come lo scolaro in castigo che facendo cenni alle spalle del
maestro tiranno ridava una speranza di follia alla scolaresca umiliata e annoiata.
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