IL TRADIMENTO DI UNA MASCHERA

 

di Lorenzo Mirizzi

 

Nonostante i quasi cento film interpretati da Totò, si fa, tutt’oggi, ancora fatica a capire quale sia in realtà il suo vero volto, la vera composizione della sua maschera.

Mille Totò affollano un’attività cinematografica ricca e variegata, dai contorni disomogenei, un vero e proprio "continente" di dimensioni abnormi: il Totò delle prime esperienze cinematografiche degli anni ’30, quello rivistaiolo di Mattoli e Bragaglia, quello neorealista di Monicelli e Rossellini e, ancora, il burattino di Steno e il sottoproletario di Pasolini.

Il mio lavoro di tesi ha come obiettivo principale l’analisi del Totò-attore in relazione ad alcune sue collaborazioni con alcuni tra i più grandi maestri del cinema italiano: e parliamo di Monicelli, Rossellini e Pasolini.

Partendo dallo studio della sua comicità ho voluto delineare i vari volti di una maschera che è andata modificandosi in relazione alle esigenze stilistiche e alla maniera di intendere il cinema dei registi che lo diressero.

La sua comicità non fu intesa da tutti allo stesso modo, ogni regista la utilizzò per un intento particolare, in relazione a un progetto artistico, sociale o ideologico.

Per Totò la comicità è musica, nel senso che è basata sul "tempo". E sono la vocazione e il mestiere che portano l’attore a improvvisare scena per scena qualche parola.

Egli portò i gesti, i lazzi dell’avanspettacolo, della rivista teatrale (alla quale era molto legato), nel mondo del cinema privo di quel calore che il pubblico infonde sui palcoscenici, ma che non ha impedito all’attore napoletano di diventarne uno degli assi portanti con quasi quaranta anni di lavoro ininterrotto.


 

La sua comicità è quella semplice e immediata dei clown, quella che strappa un sorriso alla povera gente che ogni giorno lotta per la sopravvivenza. E Totò conosce a memoria la miseria: «La miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte. […] Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».

In quest’ottica l’attore napoletano ricorda Charlot che, prima di lui, si aggirava tra le macerie e la povertà di luoghi desolati, dominati dalla miseria. E alla stessa maniera di Chaplin, appunto, è in grado di costruirsi una maschera che in qualunque soggetto rimane sempre tale. Una comicità senza tempo, che non può essere identificata in un periodo definito: quella di sempre, dunque, antica e moderna allo stesso tempo.

Nei film di Monicelli, Totò si muove sullo sfondo di una Roma che cerca di ricostruirsi nei primi anni del dopoguerra: inevitabilmente viene a contatto con il «patetismo del neorealismo rosa della nascente commedia all’italiana» con le sue regole e i suoi tecnicismi. Per la prima volta Totò si ritrova a dover abbandonare il "nucleo" centrale, il cuore della sua comicità, «l’essenza surreale del mimo disumano».

Con Steno e Mario Monicelli prima, e con Roberto Rossellini poi, l’attore napoletano è costretto a dare un senso ai suoi lazzi, ai suoi mimi, a dare una ragione alla sua comicità; una comicità che prima era sublime proprio perché era gratuita e insensata. I movimenti pazzi e irriverenti delle farse di Mattoli sono barattate da Monicelli e Steno con i più composti e meno assurdi gesti dell’uomo neorealista. Totò è reso più umano, abbandona le sue caratteristiche di marionetta, di Pinocchio: viene derubato della sua maschera, dei suoi tratti più rivoluzionari, in favore di un Totò mansueto, meno aggressivo alleggerito delle sue caratteristiche d’avanguardia.

In Dov’è la libertà…? (1954) (unico lavoro dell’attore con Rossellini) tale contrasto è messo maggiormente in risalto. Si avverte, in maniera molto evidente una disparità di tono all’interno dello stesso film: una parte dell’opera viene, infatti, realizzata da Fellini, il quale lascia maggiormente libero Totò di scatenarsi nelle sue gag. A tratti, dunque, la sua maschera pare delinearsi, prendere forma per giocare, irridere le autorità e le istituzioni con l’ingenuità delle marachelle dei bambini.

«Eppure – afferma Anile – mai come in questo film l’arte di Antonio De Curtis risulta costretta, schiacciata da esigenze stilistiche che gli rimangono estranee, annichilita da un moralismo che ha trasformato in vittima incolpevole un personaggio altrove aggressivo e irridente».


Per Totò l’incontro con Rossellini ha una grande importanza perché avrebbe potuto rappresentare il principio per l’avvio di una nuova carriera drammatica: in realtà l’incontro tra i due si traduce in uno scontro tra stili, con ogni probabilità, incompatibili tra loro.
 


 


Tanti furono i tentativi di spingere Totò verso un maggiore impegno attraverso l’interpretazione di ruoli drammatici: «Nei reiterati tentativi, […] si nascondeva la tentazione di ridimensionare la sua arte, proponendogli come un indispensabile passo in avanti quello che invece era un clamoroso autogol».

In alcuni casi Totò accetta tali inviti con risultati a volte ottimi, come Guardie e ladri (1952), a volte impalpabili come Dov’è la libertà…?.

Cosciente di avere un gran successo commerciale e quindi grande presa sui produttori, Totò non riesce a sfruttare tale situazione e, a distanza di anni, ammetterà di aver realizzato una montagna di film brutti.

Ma Totò capirà anche che le sue ambizioni nei film drammatici erano sbagliate, che Guardie e Ladri e L’oro di Napoli (1954) erano anch’essi dei compromessi: «I ruoli drammatici – afferma Totò – sono piaciuti più alla critica che al pubblico. Il pubblico ama Totò perché Totò fa ridere, perché lo aiuta a dimenticare i guai, le amarezze di tutti i giorni. Non vuole vedere Totò serio, impegnato in vicende drammatiche».

L’attore napoletano pare essere molto più a suo agio nelle farse di Steno e nelle commedie di Mattoli e Mastrocinque: non a caso saranno i registi, come egli stesso afferma, con cui lavorerà meglio.

 

 

 

Poi c’è l’incontro con Pier Paolo Pasolini: per la prima volta Totò si trova ad aver a che fare con un intellettuale e con film politicamente impegnati e al contempo surreali [Uccellacci e uccellini (1965), La terra vista dalla luna (1966) e Che cosa sono le nuvole…? (1967)].

Il principe giunge qui al termine della sua carriera pronto a mettersi in gioco. Pasolini libera Totò dell’aggressività che aveva contraddistinto le farse degli anni ’50 in favore di una comicità più docile, tenera.

Ma l’influenza della personalità dell’attore napoletano, il suo estro anarchico, finiscono per avere la meglio sul regista bolognese: «Che cosa sono le nuvole segna la definitiva rivalsa dell’arte surreale di De Curtis sul cinema ideologico di Pasolini. […] Come nell’apologo di L’aigle, Pasolini ha cercato di addomesticare un "araldico bellissimo uccello" (come Fellini definirà Totò) ma ha finito per rimanerne a sua volta soggiogato».


La dimensione irreale della favola permette all’attore napoletano di recuperare la comicità degli esordi dell’avanspettacolo e della rivista. Il Totò di Pasolini viene riportato in ambiti più visivi, da comicità del muto, quella di Chaplin per intenderci.

Pasolini, quindi, intellettuale aperto e trasgressivo accompagna Totò verso le sue origini, sul palcoscenico durante la rappresentazione dell’Otello di Shakespeare in Che cosa sono le nuvole. Lì il principe-burattino decide di lasciarci, nel momento di massima rappresentazione della sua arte comica, quella inseguita per tutta la vita.

La vera maschera di Totò, oserei dire, è proprio questa, quella legata ai fili di una rappresentazione di marionette, quella del burattino che scorrazza sul palcoscenico di un teatro in Totò a colori (1952) di Steno, quella del cinema muto, quella del gagà delle riviste, quella a cui «sono affezionato come alla mia cosa più cara».

 

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