Totò e i re di Roma
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Film in B/N durata 99 min. - Incasso lire 406.400.000 (valore attuale € 13.171.487,60) Spettatori 3.600.000 Video-clip 38 sec. "Totò e i re di Roma" 1952 di Steno e Mario Monicelli. Soggetto Dino Risi, Ennio De Concini liberamente tratto dai racconti di Anton Cechov "La morte dell'impiegato" e "Esami di promozione". Sceneggiatura Steno, Mario Monicelli; Produttore Golden Film, Humanitas Film, Direttore della Fotografia Giuseppe La Torre, Musiche Nino Rota, Montaggio Adriana Novelli, Sceneggiatore Alberto Tavazzi, Direttore di Produzione Piero Filippone, Aiuto Regista Lucio Fulci, Fonico Kurt Doubrawsky. Interpreti: Totò (Ercole Pappalardo), Anna Carena (sua moglie), Giovanna Pala (Ines), AnnaVita (la figlia maggiore), Eva Vaniceck (Susanna), Ada Mari (la figlia minore), Alberto Sordi (un maestro), Ernesto Almirante (Dio), Giulio Stival (Langherozzi Schianchi), Lilia Landi (una contessa), Gianni Glori (Giorgio), Aroldo Tieri (Petrucci), Giulio Calì (suonatore di tromba), Marisa Fimiani e Francesca Pietrosi (due prostitute), Italia Marchesini (signora Sconocchia), Giulio Battiferri (guardiano del paradiso), Armando Annuale (musicista), Mario Maresca (Trifossi), Eduardo Passarelli (un esaminatore), Paolo Ferrara (un esaminatore), Pietro Carloni (il capufficio), Nino Milano (impiegato), Amedeo Girard (usciere dell'albergo). Ercole, impiegato del ministero sogna la promozione, ma una sera a teatro starnutisce sul capo del suo direttore dando inizio ai propri guai. Per conservare il proprio posto di lavoro deve fare un esame, ma viene bocciato. Decide di morire per dare così in sogno alla propria moglie una cinquina vincente. Ma dall'aldilà questo non è permesso. Ercole infine si sveglia e si rende conto di aver sognato. |
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Le situazioni sono vistosamente condite di facili spunti ispirati alla più convenzionale contingenza politica e alla parodia di un certo costume burocratico. Se qualche volta, tuttavia, giungono a suscitare, dopo le risa, un'ombra di emozione nel pubblico, il merito è da attribuirsi all'interpretazione di Totò che, anche senza approfondire il suo personaggio, ha saputo qua e là rivestirlo di note abbastanza patetiche. Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", Roma, 19 ottobre 1952. Il film sul finale si trascina in un artificioso surrealismo di brutta imitazione. Steno e Monicelli sono rientrati nei ranghi della produzione commerciale, standardizzata e mediocre col simpatico guitto Totò e un gruppetto di mezze figure. Ugo Zatterin, "Il Giornale d'Italia", Roma, 19 ottobre 1952.
Si conclude con questo film una
sorta di (non dichiarata) "trilogia" di Steno e Monicelli, iniziata con
"Totò cerca casa" e proseguita con "Guardie
e ladri". Ci sembra legittimo il termine perchè i tre film trattano
problematiche sociali con la formula "agrodolce", propria dei due
registi, e che ritroviamo poi nella "Commedia all'italiana". Ercole Pappalardo, povero archivista ministeriale alle prese con il bilancio familiare, mette in evidenza le sue innumerevoli frustrazioni, a cominciare dall'usciere, appena nominato cavaliere, che lo snobba ed esige il "lei", provocando una reazione che Pappalardo avrà a più riprese, con le due esclamazioni poi dice che uno si butta a sinistra e ha da venì..., alludendo a Stalin. L'ufficio è un acquario umano dominato dal brulichio incessante degli impiegati, ossessionati dai soldi, che passano la loro giornata tra finti scioperi, funerali ai colleghi, attese di scatti, nomine onorifiche che non vengono, ipotetiche promozioni, giocate al lotto e collette varie, mentre il capufficio (pietro Carloni) è eternamente occupato, perfino durante un funerale, a fare le parole crociate. Tenerissima la rievocazione del primo bacio "prima di morire", che si conclude con l'affermazione straziante, perchè profondamente vera, non me va più de campa'. Il film, sceneggiato da Risi e De Concini, è percorso da un umorismo nero con il prevalere dei funerali, dei morti, dell'aldilà, che fa da pendant all'asfittico mondo ministeriale. Epica la famosissima scena degli esami, che ispira il titolo del film, dove il povero impiegato, esperto sul prezzo delle patate e dei cavoli, non è però in grado di elencare il nome dei sette re di Roma. Commovente e triste il viso di Pappalardo, quando comunica alla commissione che la sua bocciatura, oltre a pregiudicargli la stabilità dell'impiego, lo costringerà ad esibire alla propria famiglia una sconfitta, che è per lui ancora più amara e più degradante della disoccupazione. Immerso così in un clima di aperta satira sociale, anche se fortemente ancorato ad una cornice di rigoroso realismo, Totò sviluppa una comicità tratteggiata su un registro che si avvale più di implosioni che di esibizioni linguistiche e mimiche. La satira sociale, con alcuni risvolti un pò populistici alla Gorki, si adatta perfettamente alla figura fisica e al viso di Totò, su cui sembrano essersi sedimentati (come notava Fellini) secoli di miseria e di fame, di dolori, di attese e di cocenti delusioni. Tratto da "Totò principe clown" di Ennio Bìspuri per gentile concessione |
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