Totò Biografia: Il principe e il comico
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Tra i registi di Totò, accanto a Mario Mattòli, che nel dopoguerra ne intuì le inesplorate potenzialità cinematografiche, merita un posto di primo piano Carlo Ludovico Bragaglia, che aveva incontrato il principe sin dai tempi di Animali pazzi.
Nel giro di pochi anni, tra il ‘49 e il ‘50, sforna cinque film di diseguale valore come Totò le Mokò, Figaro qua... figaro là, 47 morto che parla, Totò cerca moglie, Le sei mogli Barbablù, tra i quali ci sono almeno un paio di capolavori.
Il rapporto tra l’attore napoletano e il regista ciociaro era particolarmente buono, fondato sulla reciproca stima.
Naturalmente, “Bragaglino” conosceva bene la pigrizia di Totò , attore profondamente istintivo che talora non leggeva nemmeno il copione e non voleva sapere niente del film che doveva interpretare, affidandosi completamente alle straordinarie qualità della sua inventiva estemporanea.
La prima cosa che Totò chiedeva quando arrivava sui set per fare una scena era «Che aggia fa’?». L’abilità del regista consisteva nel prenderlo di sorpresa perché una volta dategli le indicazioni per la scena, non si potevano fare delle prove perché perdeva la concentrazione.
Si doveva quindi mettere le luci, predisporre la ripresa con una controfigura e poi far venire Totò, che di solito andava benissimo al primo ciak e già meno bene al secondo. Se qualcosa non aveva funzionato, si rifaceva tutto daccapo anche se era una faticaccia.
Alla fine di ogni scena la troupe aveva preso l’abitudine di applaudire perché si era accorta che il principe, abituato all’applauso in teatro in cui stava a contatto con il pubblico, mal sopportava la freddezza della lavorazione cinematografica e solo dopo l’applauso si entusiasmava e lavorava con piacere.
Se l’applauso non veniva spontaneo, Bragaglia non esitava a organizzare una claque di macchinisti, elettricisti, attrezzisti.
Appena finita la scena, facevano grandi applausi che gli davano la carica e lo facevano lavorare con lena tutta la giornata.
Il primo grande successo della collaborazione tra Totò e Bragaglia è Totò le Mokò, che il regista aveva inizialmente pensato come una trasposizione di Pepé le Mokò, il noto film di Duvivier con Jean Gabin, nell’ambiente napoletano.
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La trovata avrebbe dovuto consistere nel collocare le imprese del bandito della casbah tra i vicoli e i bassi di Napoli, quindi non in una scenografia romanzesca attinta dalla tradizione letteraria e cinematografica, ma in un paesaggio vero, brulicante di vita e di realtà in cui la miseria e l’arte di arrangiarsi erano la prima fonte d’ispirazione
Il copione avrebbe dovuto essere scritto da Eduardo De Filippo, con cui il regista aveva già fatto tre film e che sarebbe stato in grado di cogliere le tensioni e gli umori del dopoguerra napoletano, l’intreccio di antichi malesseri e di nuove calamità.
Ma il progetto purtroppo sfuma, anche per i tempi superveloci di questo tipo di produzioni, che devono risolvere tutto in due, tre settimane al massimo.
Il film si muove sul binario già collaudato della parodia tra le scene e i fondali della casbah ricostruita a Cinecittà, in cui Totò, musicista ambulante di poca fortuna, viene chiamato a dirigere la banda di Pepé le Mokò.
Quando Totò ordina ai suoi di predisporre gli strumenti per il debutto al Grand Hòtel, tutti pregustano un grosso colpo.
Non appena Totò tira fuori la bacchetta per dare il via al concerto, felice di dirigere finalmente una banda importante, i malviventi fanno uscire dai loro astucci i mitra e le rivoltelle con cui ordinano agli ospiti dell’albergo di consegnare i gioielli. Solo alla fine, dopo una serie di equivoci e di gag particolarmente felici che sono la vera forza del film, Totò riesce ad avere la meglio e a incassare anche la taglia per la cattura del redivivo Pepé, con cui può tornare a Napoli per dare vita a una vera banda musicale.
Se Totò cerca moglie ha almeno un episodio straordinario, quello della famiglia Bellavista, e Figaro qua... Figaro là è una godibile parodia del Barbiere, quello che Bragaglia considera il miglior risultato della sua collaborazione con il principe è 47 morto che parla, tratto da un bozzetto di Ettore Petrolini, in cui sono stati innestati alcuni spunti desunti dall’Avaro di Molière.
II film è particolarmente riuscito sia per la tenuta della costruzione complessiva, sia per il risalto delle gag e delle battute. Sono memorabili i duetti tra Totò e il suo cameriere Gondrano, un allocchito Carlo Croccolo, sui temi della vita di ogni giorno come i soldi o la spesa, o gli scambi di battute tra Totò e il macellaio Gildo Bocci che perde la testa per una storia di resti che il barone ha sapientemente pasticciato.
Nel rievocare la stagione d’oro del cinema di Totò non può dimenticare l’apporto fondamentale dei soggettisti e degli sceneggiatori che hanno scritto i film di Totò mettendo a frutto l’esperienza del teatro, vissuta a fianco dell’attore o anche soltanto da spettatori, e quella più recente dei giornali umoristici e delle rubriche radiofoniche.
Si trattava spesso di un lavoro da fare a rotta di collo, da una settimana all’altra, talvolta sulla base di una traccia esile o anche soltanto di un titolo, incalzati dai produttori che avevano prenotato i teatri di posa per le riprese e avevano fretta di cominciare la lavorazione fino a che il successo continuava.
Tra i più prolifici sono stati forse Vittorio Metz e Marcello Marchesi, che venivano dal giornalismo, dal teatro e dalla radio e hanno contribuito come pochi altri a portare al cinema l’umorismo del «Marc’Aurelio» e del «Bertoldo», ma non vanno trascurati neppure Age e Scarpelli, Ruggero Maccari, Sandro Continenza, Steno e Monicelli, che presto passano alla regia.
Il lavoro è spesso un lavoro di coppia, pronto a diventare, con l’arrivo di altri collaboratori, un lavoro di squadra in cui non si procede certo a colpi di fioretto o di bulino ma a colpi di mazza per soddisfare nel più breve tempo possibile le esigenze di un cinema che conta molto sulla velocità.
Durante tutta la sua carriera Totò non avrebbe mai saltato una rappresentazione a teatro perché per lui lo spettacolo doveva continuare a qualunque costo.
Quando durante le repliche di "C'era una volta il mondo" muore sua madre Anna, con enorme dolore Totò va in scena ugualmente. Continua in lui la dualità tra Antonio De Curtis e Totò, da tenere separati perché una cosa è lo spettacolo e una cosa ben diversa è la vita privata.
Le due dimensioni non devono interferire l’una con l’altra. Nel 1949, sempre assorbito dal cinema, Totò ottiene, con "Bada che ti mangio", il suo ultimo significativo successo nel teatro di rivista a cui ritornerà solo nel ‘56. Totò è coautore dei testi con Galdieri. Il produttore è ancora una volta Remigio Paone che con la sua Spettacoli Errepì ha già messo in scena più di una rivista di Totò.
L’anno successivo presenta alla radio un proprio programma settimanale, Tutto Totò, la cui idea centrale sarà ripresa nell’omonimo ciclo televisivo degli ultimi anni. Sul set di 47 morto che parla recita al fianco di Silvana Pampanini. La prorompente attrice bruna, che ha allora venticinque anni e arriva sul set sempre accompagnata dal padre, colpisce molto Totò che comincia a corteggiarla.
Sarà proprio la risonanza data dagli amici pettegoli e dai giornalisti al flirt tra Totò e Silvana che farà decidere la sua ex moglie Diana, che fino ad allora ha continuato a vivere con lui anche se legalmente il matrimonio non esiste più, a uscire di scena.
Di lì a poco anche sua figlia Liliana lo abbandonerà per sposare il 24 giugno 1951, ad appena diciotto anni, Gianni Buffardi, figlio di Assunta Paparo, poi moglie di Carlo Ludovico Bragaglia.
Totò resta solo e in questo clima di tristezza scrive nell’aprile del ‘51, in una pausa di lavorazione di Totò terzo uomo, la canzone Malafemmena. Usa come carta il retro di un pacchetto di Turmac bianche, le sigarette che lo accompagneranno per tutta la vita. Ne fumava fino a novanta al giorno.
Su Malafemmena, lanciata a Piedigrotta nel ‘51 da Giacomo Rondinella e ripresa nello stesso festival da Mario Abate, è fiorita più di una leggenda, ma il titolo non significa donna di facili costumi, indica invece una donna dal cuore inaccessibile che non ricambia i sentimenti di chi è innamorato di lei.
Sembra che Totò l’abbia scritta per la moglie Diana alla quale era ancora molto legato, incapace di accettarne l’abbandono. Ma i giornali, che ricamano sulla sua storia d’amore con Silvana Pampanini, sostengono che l’ha dedicata a lei.
La giovane attrice, alla dichiarazione di Totò, gli ha risposto infatti che anche lei gli vuole bene, ma come se fosse suo padre.
Il commento di Totò è lapidario: «Grazie, hai hai fatto proprio un bel complimento». Il motivo della canzone — «Femmena / tu si ‘na malafemmena... / Chist’uocchie ‘e fatto chiagnere... / Lacreme e ‘nfamità / Femmena / tu si’ peggio ‘e ‘na vipera / m’è ‘ntussecata l’anema / nun pozzo cchiù campa’» — ha un grande successo a Piedigrotta. Al teatro Italia si è riunita una folla tra cui sono presenti nelle prime file i più importanti guappi della città, che organizzano la malavita partenopea, invogliati dalla presenza di Totò promessa dai manifesti.
Ma il principe non si vede. Sta per scoppiare una sommossa. L’editore Ettore Marotta, che aveva organizzato la serata, chiede l’aiuto di Giosuè Ippolito, appassionato di canzoni e organizzatore di sceneggiate, perché scovi Totò.
L’attore, che si è concesso un incontro galante con un’amica napoletana, viene finalmente rintracciato e scortato a teatro, dove viene festeggiato e invitato quindi al ristorante per concludere la serata in trionfo.
Totò, tra le canzoni che ha composto, preferisce Sulo: «Sulo! Songo rimasto sulo / nun tengo cchiù a nisciuno / tenevo sub, a te / Sulo!», in cui c’è anche il verso «io moro ‘e pucundria», che è un po’ lo stato d’animo di Totò, clown triste, quando sta in casa, lontano dalle luci della ribalta.
Il 1° agosto del ‘51 Diana, che ha appena trentasei anni, sposa l’avvocato Michele Tufaroli, dal quale però si separa tre anni più tardi. Totò è sempre più solo, ma è anche pronto a ricominciare. "Il principe Totò" Orio Caldiron (Gremese editore)
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