Totò Biografia: La prima infanzia
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Antonio Vincenzo Stefano Clemente nasce a Napoli il 15 febbraio 1898 alle 7 e 30 del mattino. L’appartamento dove abita sua madre Anna Clemente si trova al secondo piano di un palazzetto al numero 109 di via Santa Maria Antesaecula nel rione Stella, soprannominato Sanità per la sua aria, a quei tempi, particolarmente salubre. Il quartiere, vicino alla stazione ferroviaria, è considerato il cuore della “guapperia” napoletana. Anna, una sedicenne molto bella, orfana di padre, vive in famiglia con la madre Teresa e quattro fratelli. Sarà proprio uno di loro, lo zio Vincenzo che fa il meccanico, ad andare in municipio per denunciare la nascita del piccolo Antonio.
In quanto al padre, il marchese Giuseppe De Curtis, è uno scapolo di trentatré anni che, pur amando Anna, come nobiluomo che obbedisce alle regole del tempo e soprattutto a quelle di un padre irascibile, non convive con la sua amante, ma anzi deve tenere nascosta la relazione. E titolare di una sartoria ambulante che, senza una sede fissa, porta i suoi servigi a casa dei clienti.
Nel periodo di massimo splendore l’atelier ha pure una sede in via Roma, vicino ai locali dell’attuale Rinascente. Negli anni successivi la sartoria si trasforma in agenzia teatrale con l’ufficio in via Corrieri a Santa Brigida, ma non diventerà mai una fonte di grandi guadagni.
Anna, chiamata in famiglia Nannina, tanto giovane da essere sfrontata, non fa mistero né del suo legame, né della sua gravidanza e vive, quasi esibendola, la sua condizione di mantenuta, anche se il fidanzato è più generoso in bei regali che in aiuti concreti.
Più amante che madre, preferirà lasciare il bambino alle cure della nonna per dedicarsi completamente all’amato con il quale si incontra tutte le sere.
Saranno il bacio che gli dà prima di uscire e il profumo della cipria con cui si è fatta bella i primi ricordi del piccolissimo Antonio, che la madre ha soprannominato da sempre con il vezzeggiativo affettuoso di Totò.
Essere figlio di una nubile o, come si diceva allora, di N.N. gli pesa sempre di più mano a mano che cresce, perché vive l’emarginazione nel comportamento scostante dei compagni di giochi. Tanto più che è povero e viene spesso vestito con pantaloni ricavati dalle gonne smesse di sua madre.
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Una volta, addirittura, questi indumenti di fortuna sono a fiori e agli amici non par vero di potergli dare del “femminiello” e del “ricchione”.
Il piccolo Totò si ribella. Se li toglie e così, in mutande, improvvisa delle smorfie accompagnate da movimenti di tutto il corpo in dispregio degli antipatici. Questi ammutoliscono e finiscono con il divertirsi moltissimo alla sua esibizione, tanto che alla fine lo applaudono. L’infanzia di Totò trascorre per lo più solitaria.
I suoi giochi sono quelli dei bambini poveri che trovano modo di divertirsi per la strada tirando calci a un barattolo, in mancanza di un pallone, o saltando in una “campana” disegnata per terra con il gesso.
Ma c’è un gioco che ama fare da solo a casa ed è fingersi prete. Forse perché il prete rappresenta un’autorità bonaria con un suo spazio autonomo, in cui Totò immagina di essere rispettato dalla madre, dalla nonna e soprattutto dai compagni di strada. Prepara così degli altarini con immagini di santi e lumini e si mette a officiare inventando filastrocche strampalate. Ma il prete fa pure i funerali. Totò raccoglie gli animali morti che incontra e dopo averli deposti in scatole di fortuna li trascina con uno spago fingendo di portarli al camposanto.
Questi giochi un po’ inquietanti non sono ben visti da sua madre che gli affibbia dei sonori ceffoni, l’unico sistema educativo che usa con il figlio sentendosi la sola responsabile della sua formazione, dal momento che il padre è poco presente. Anche a scuola Totò non dà molte soddisfazioni a sua madre. Non ama studiare e, come usa ormai fare in tutte le circostanze, si diverte piuttosto a osservare, a “spiare”, secondo la dizione dei vicini di casa che si sentono osservati modo inequivocabile dal bambino appostato là dove meno vorrebbero trovarlo. E così che tanti anni dopo si ricorderà con precisione il modo di leggere del suo maestro delle elementari quando, dovendo inventare il personaggio di un miope, finge di leggere un foglio scorrendolo dall’alto in basso con l’occhio destro appiccicato alla carta. Ma i suoi grossolani errori di ortografia lo porteranno addirittura, in quarta elementare, non solo a essere bocciato ma a essere retrocesso in terza. Lui non se ne dà troppo pensiero e continua a divertire i compagni più piccoli con le sue smorfie e sue battute. Finalmente però è promosso e finisce le elementari. A questo punto la mamma, con l’aiuto del padre, decide di iscriverlo — proprio perché entrambi preoccupati atteggiamenti da “spione” che il bambino andava sempre più acquistando — al collegio Cimino nel palazzo del principe di Santobuono in via San Giovanni a Carbonara, ottenere la licenza ginnasiale.
C’è una foto di Totò a otto anni che lo raffigura vestito da marinaretto, i capelli lisci divisi al centro da una larga discriminatura, i grandi e intensi occhi neri, il viso di un ovale perfetto solo allargato da una mandibola già ben disegnata, orecchie leggermente a sventola.
Non c’è ancora nulla sua celebre maschera. Sarà proprio al collegio Cimino per un banale incidente il suo viso si deformerà per quella che allora sembra una disgrazia, ma che poi proprio per primo riconoscerà come la propria fortuna. Un giorno, durante la ricreazione, sta tirando scherzosamente boxe con uno dei precettori. Per scansare un suo pugno, il precettore gliene dà uno in pieno volto. Il naso comincia a sanguinare copiosamente e anche la mascella gli fa molto male.
Al momento l’incidente non sembra così serio, ma poi con il passare dei giorni si vedrà che il setto nasale è deviato e che una mascella è più rientrata dell’altra. In collegio Totò non fa grandi progressi e a tredici anni decide di smettere di studiare. Confessa ai genitori che vuol fare l’attore, anche perché ha già partecipato a qualche “periodica”, le riunioni familiari in cui, alla presenza di mamma, papà, zie e zii, i più giovani si esibiscono cantando o recitando versi. Ma per i suoi parenti la professione di attore è solo sinonimo di miseria e di vita sregolata. Così per un breve periodo pensa di farsi prete, cosa per niente sgradita alla madre.
Ma la prima volta che, dopo lunghe prove, si esibisce come chierichetto, mentre sta servendo la messa, tra la musica dell’organo, i fumi dell’incenso e i paramenti sacri, per l’emozione si dimentica le frasi che deve dire al prete. Sua madre è presente e lo rimprovera furibonda che non sa fare nemmeno il prete.
Totò non se la prende, anche perché ha scoperto da poco il sesso grazie a Carmela, una prostituta dalla quale lo conducono i suoi compagni, e pensa che è troppo bello per poterne fare a meno. Si è preso, è vero, lo “scolo”, che curerà, solo dopo aver molto tergiversato per la vergogna, con la complicità di zio Federico, il fratello prediletto di sua madre. Nonostante le mille precauzioni, Anna lo scopre e decide con Giuseppe di farlo lavorare in sartoria per impedirgli di bighellonare con le cattive compagnie. Ma Totò preferisce piuttosto andare a fare l’imbianchino da mastro Alfonso, il pittore che cerca un aiutante. Con i pochi soldi che guadagna, Totò può frequentare i teatrini dove si esibisce il fantasista Gustavo De Marco e nelle periodiche ne fa l’imitazione ricevendo applausi a non finire. Davanti allo specchio prova le varie espressioni e si accorge che la sua faccia sembra di gomma, può assumere qualsiasi deformazione: anche il suo corpo, le braccia, le gambe, il collo sono come disarticolati. Il primo, divertito spettatore delle sue invenzioni è lui stesso.
Nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale, decide di arruolarsi come volontario nonostante la disapprovazione di sua madre. Al distretto militare lo assegnano prima al 22° reggimento dislocato a Pisa e poi al 182° battaglione destinato ad andare in Francia.
Prima della partenza il colonnello raduna i soldati e li mette al corrente che in Francia coabiteranno con un reparto di marocchini, suggerendo di portarsi un coltello per difendersi eventualmente dalle loro abitudini “diverse”.
Totò è spaventatissimo e alla stazione di Alessandria finge un attacco epilettico così ben riuscito che lo ricoverano all’ospedale militare in osservazione e da lì passerà a Livorno. Durante il servizio militare, che farà tutto nel porto toscano, si esibisce su improvvisati palcoscenici di assi davanti ai suoi commilitoni e conia l’espressione «siamo uomini o caporali?», destinata a diventare famosa. In questa frase è concentrata tutta la filosofia che ha sperimentato sulla sua pelle durante i mesi sotto le armi. Tra suoi superiori c’è un caporale che l’ha preso in antipatia e lo massacra di corvées.
Nonostante il soldato Totò le esegua alla perfezione, il caporale, non contento, trova sempre il modo di punirlo ulteriormente. Per lui perciò gli uomini non si dividono in buoni e cattivi, ma in uomini e caporali. Naturalmente, nell’udirlo i suoi compagni si spellano le mani dagli applausi perché si sentono finalmente vendicati.
Tornato a casa, Totò annuncia ai genitori che ha deciso di seguire la sua vocazione. La disapprovazione è generale. Anche suo padre, che dopo la morte del vecchio marchese si è riavvicinato ad Anna fino a sposarla il 24 febbraio 1921, si dichiara assolutamente contrario. Totò segue la sua strada da solo e per non gravare sul bilancio familiare si unisce a compagnie di second’ordine. Si presenta all’impresario ‘ Eduardo D’Acierno e comincia a lavorare in piccoli teatri periferici imitando le macchiette di De Marco. Ma le esibizioni sono spesso accolte con fischi e Totò, già di carattere triste e malinconico, viene preso da crisi depressive. Con lui si aggirano allora per gli stessi teatri altri attori musicisti che diventeranno famosi, come Eduardo e Peppino De Filippo, Armando Fragna, Cesare Bixio. Le “staccate” si tengono nei teatrini di Aversa, Torre del Greco e Castellammare, il sabato e la domenica. "Il principe Totò" Orio Caldiron (Gremese editore)
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