Un compassato preside del liceo classico di una
grande città campana, negli anni cinquanta, dopo cena si recava, quasi in
incognito e tentando di passare inosservato, in un cinematografo popolare—allora
si chiamavano ‘pidocchietti’—per godersi il film di Totò in programma.
D’altra
parte non gli si poteva dare torto se si pensa che tutta la cultura ufficiale—e
specialmente quella, raffinata, della spadoliniana Italia di minoranza—nutriva,
nei confronti del Principe De Curtis, un disprezzo malcelato e reso, in un certo
senso, ancor più stizzoso dal forzato riconoscimento della sua innegabile
bravura di attore.
"E’ veramente doloroso constatare—si poteva leggere sui ‘La Voce Repubblicana’
del 14 novembre 1954—come la comicità di certi film italiani sia ancora legata a
sorpassati schemi appartenenti al più infimo teatro di avanspettacolo". E il
critico proseguiva rilevando che "Totò sfoggia come al solito i tipici
atteggiamenti di quella comicità così banale". Fa una certa impressione sapere
che la pellicola così deprimente era nientemeno che Il medico dei pazzi, un
capolavoro del teatro farsesco napoletano, scritto dal grande Edoardo Scarpetta
nel 1908 e portato sullo schermo da Mario Mattoli.
"E’ proprio vero—ammetteva, invece, parlando di
Totò, Peppino e la malafemmina,
un altro critico—con Totò e Peppino si ride sempre. Anche se il soggetto è così
povero di fantasia, di originalità, di gusto come questo. Viene fatto di
pensare, con rammarico, al pessimo uso che gli
sceneggiatori, il regista fanno di questi nostri due migliori attori comici. Se
poco poco ci si mettessero (diciamo i soggettisti, il regista), se sforzassero
le loro meningi quel tanto da tirar fuori una storia decente, siamo certi che
attraverso la recitazione di Totò e di Peppino, si potrebbero vedere dei film
godibilissimi. E invece...".
Il quotidiano, che pubblicava questa recensione il 10 settembre 1956, ‘La
Notte’, non poteva certo dirsi di sinistra, eppure sentiva il bisogno di mettere
in guardia il pubblico borghese, al quale si indirizzava, contro il
macchiettismo e la volgarità della sceneggiatura di Enrico Manzari. Oggi il film
di Camillo Mastrocinque è divenuto un’icona.
Le due scene della richiesta
d’informazioni al vigile urbano di Piazza del Duomo scambiato per un generale
austriaco--<"Noio volevam savuàr"> e la dettatura della lettera alla
‘malafemmina’-- <Signorina veniamo noi con questa mia addirvi una parola che che
scusate se sono poche ma sette cento mila lire; a noi ci fanno specie che questanno c’è stato una grande moria delle vacche come voi ben sapete: questa
moneta servono a che voi vi con l'insalata consolate dai dispiacere che avreta
perché dovete lasciare nostro nipote che gli zii che siamo noi medesimo di
persona vi mandano questo perché il giovanotto è uno studente che studia che si
deve prendere una laura che deve tenere la testa al solito posto cioè sul
collo.;.:..Salutandovi indistintamente i fratelli Caponi (che siamo noi) >--sono
ormai divenute ‘classici’ luoghi della memoria, che fanno parte del nostro
immaginario collettivo come la Torre di Pisa o il Golfo di Napoli col Vesuvio
sullo sfondo.
I relativi poster si possono vedere appesi negli uffici e nelle
abitazioni più à la page e, persino qualche testo di linguistica, pubblicato da serissime e accademiche case editrici, può riprodurre in copertina lo zio
Antonio Caponi che detta al fratello Peppino la lettera suaccennata.
Ma forse gli accenti più severi si ritrovavano nel quotidiano del partito che
avrebbe dovuto essere più vicino e sensibile ai gusti popolari, ‘L’Unità’. Nella
recensione a Totò, Eva e il pennello proibito (15 febbraio 1959) sospirava
malinconicamente Ugo Casiraghi.< Gli spettatori non sono fortunati, siamo
giusti, costretti ad ingerire prodotti così squallidamente raffazzonati, così
privi di spirito e d’ogni luce d’intelletto umano>. Certo la sceneggiatura—di
Vittorio Metz, Roberto Gianviti e Ruggero Maccari—non era esaltante e il regista
Steno, sette anni prima, aveva firmato una pellicola di ben consistenza e
fortuna—Totò a colori—ma la severità del critico calava sulla troupe
cinematografica, implacabile come una mannaia.
Il ritornello era sempre lo stesso: Totò un grande attore che non riusciva a
trovare registi capaci di valorizzarne le straordinarie qualità artistiche.
Oggi quel mito—stancamente ripetuto dalla stessa figlia Liliana che, per
gratitudine nei confronti dell’eccezione che conferma la regola, ha definito
Pier Paolo Pasolini il più grande poeta del nostro tempo—è ormai morto e sepolto
assieme alle tante espressioni di pessimo gusto della nostra critica letteraria
e cinematografica. Oggi siamo in grado di apprezzare la professionalità e la
discrezione di ‘registi minori’ come Mario Mattoli, Mario Bonnard,
Carlo
Ludovico Bragaglia, Sergio Corbucci, Camillo Mastrocinque,
Domenico Paolella,
per limitarci a questi, che avevano capito la cosa essenziale: che a Totò,
ultima grande espressione della ‘commedia dell’arte’, doveva essere concessa
carta bianca in modo che sul set tirasse fuori tutta la sua naturale ‘vis
comica’ improvvisando, cambiando il copione, costringendo i suoi eccezionali
partner (Peppino De Filippo,
Aldo Fabrizi, Nino Taranto,
Vittorio De Sica) e la
sua indimenticabile spalla, Mario Castellani, a stare al gioco, a ‘inventare’
con lui.
Ma è poi vero che Totò non ha incontrato grandi registi o, comunque, artigiani
di altissimo livello della macchina da presa, in grado di ‘utilizzarlo’ in opere
artistiche non effimere?
Continuare a ripetere questa banalità è segno
inequivocabile di informazione superficiale. Totò, non va dimenticato, fu
diretto da cineasti che si chiamavano Luigi Comencini,
Eduardo De Filippo,
Mario
Monicelli, Alessandro Blasetti, Luigi Zampa, Vittorio De Sica,
Aldo Fabrizi,
Mauro Bolognini, Alberto Lattuada, Dino Risi e sarebbe stato il protagonista di
un film di Federico Fellini se il progetto non fosse andato a monte—e non per
sua colpa o inadeguatezza.
Vero è che nello stesso mondo dello spettacolo, si temeva di potersi confondere
con lui, ormai segnato per sempre come macchietta napoletana.
Anna Magnani, che
tante volte aveva calcato il palcoscenico negli spettacoli di varietà di Totò,
nel 1960 avrebbe volentieri rinunciato a girare Risate di gioia di
Mario
Monicelli se non vi fosse stata costretta dalle clausole del contratto stipulato
con la casa di produzione.
All’attrice, reduce dai trionfi hollywoodiani—La rosa
tatuata di Daniel Mann (1955) che le aveva fatto attribuire l’Oscar, Selvaggio e
il vento di George Cukor (1957), Pelle di serpente di Sidney Lumet
(1959)—recitare col suo antico capocomico sembrava essere retrocessa in Serie B,
dopo aver vinto il campionato mondiale. Anche per la popolanissima
Nannarella la
presenza del Principe era squalificante, preclusiva di rapporti intellettuali,
magari con i frequentatori di Via Veneto, a lungo sospirati. Eppure
Risate di
gioia resta uno dei documenti più amari di una stagione che non ci siamo
lasciati del tutto alle spalle. Questa volta, però, un critico di elevata
professionalità come Morando Morandini , non si lasciava condizionare da
snobismi di sorta.< Dobbiamo far le lodi della Magnani—scriveva-- E' bravissima.
E Totò non le sta indietro>. E del resto come dimenticare la scena dei due
derelitti, Umberto detto Infortunio (Totò) e Gioia detta Tortorella (la Magnani)
che, alla festa di Capodanno, dove si trovano per far da supporto al ladruncolo
Lello (Ben Gazzara), improvvisano la scena di
Geppina <ragazza di fumo che ha la
testa con naso un pò all’insù>? Mai strazio e comicità ricongiunti in due
sublimi maschere del cinema e del teatro nazionale avevano dato luogo a un mix
così struggente.< Geppi la tua voce, Geppi la tua luce sei tanto strana ma tu mi
piaci..>.
Da diversi anni, la riscoperta di Totò sta assumendo toni apologetici
francamente esagerati come a voler rimediare a torti e umiliazioni a lungo
inflitti in passato. Si è arrivati, persino, a scrivere—e da parte degli
esponenti della cultura che più lo aveva disprezzato-- che era più avanti (e
quindi, ‘più grande’) di Charlie Chaplin e sicuramente degno di essere posto
accanto a Buster Keaton. Come spesso capita nel nostro paese, per far
dimenticare un eccesso si ricade in quello opposto. No, il creatore di Charlot
era altra cosa e ne era consapevole lo stesso Principe De Curtis che, nel
racconto della devota e discreta compagna Franca Faldini, in una lontana
estate—se ben ricordo-- in Costa Azzurra, ritrovatosi per caso col suo yacht
vicino a quello di Chaplin , lo aveva sbirciato mentre si radeva sulla tolda e ,
rimasto a lungo incerto se e come presentarsi a lui, aveva poi per timidezza
rinunciato all’incontro.
L’autore di ‘Tempi moderni’, di ‘Luci della città’, va
detto senza mezzi termini, verrà ricordato come uno dei
grandi protagonisti intellettuali del XX secolo, accanto ad Albert Einstein, a
Bertrand Russell, a Thomas Mann. La sua statura intellettuale e il suo genio
creativo erano incomparabili a quelli di Totò e il suo linguaggio universale che
andava oltre le frontiere etniche e culturali, sapeva tradurre in geniali
trovate comiche le figure della crisi profonda che il Novecento si portava
dentro, dalla disumanità del taylorismo al cieco istinto di potenza dei ‘grandi
dittatori’.
E nondimeno anche il Principe era, a suo modo, <rappresentativo> ma
rappresentativo di un’Italia profonda, ‘cattolica’ in un senso non
necessariamente religioso, che aveva serbato costumi e spiriti comunitari che la
modernità, col tempo, avrebbe travolto e cancellato senza per questo rendere più
ricca e più ‘umana’ la convivenza nell’<aiuola che ci fa tanto feroci>. Come ho
avuto modo di rilevare in altre sedi, Totò si comprende sullo sfondo di
un’Italia qualunquistica, caratterizzata da vizi e da virtù che se costituivano
spesso un ostacolo al processo di secolarizzazione, rendevano, tuttavia, meno
cruenti i conflitti sociali. Da ‘Destinazione Piovarolo’ di
Domenico Paolella
(1955) a ‘Siamo uomini o caporali’ di Camillo Mastrocinque (1955), da ‘La banda
degli onesti’ sempre di Mastrocinque (1956) a ‘I due marescialli’ di
Sergio Corbucci (1962), per non parlare dei bellissimi, monicelliani, ’Guardie e
ladri’(1951) e ‘Totò e Carolina’ (1953), Totò è l’incarnazione del ‘suddito’,
della ‘gente meccanica e di piccolo affare’ che chiede solo di vivere e di
ritagliarsi un modestissimo spazio vitale ma che non viene mai presa in
considerazione dai potenti, dai ‘caporali’ di turno.
Al di là dello spirito forse plebeo ma mai greve—si ricordi in ‘Miseria e
Nobiltà’ di Mario Mattoli (1954) la scena in cui il finto Principe abbracciando
la futura nipote, una Sofia Loren dalle generose protuberanze, pronuncia le
parole <Nipote mia, noi ti accogliamo nel seno della nostra famiglia e tu
accoglici nel tuo seno>-- l’intelligenzia nazionale, che arriccia il naso
davanti alla ‘volgarità’, e una borghesia che si vergogna delle sue radici
provinciali e vorrebbe rimuoverle, non riescono a rassegnarsi alla resistenza
del ‘materiale umano’ –le varie incarnazioni di Totò sullo schermo--
<all’intenzion dell’arte>, al progetto modernizzatore, all’ambizione delle
classi politiche—fasciste, comuniste, azioniste, liberalsocialiste,
liberalprogressiste—che si alternano al potere, nelle varie stagioni della vita
nazionale, di rifar l’anima al paese, di eliminare gli angoli bui e retrogradi,
di liberarsi con un taglio netto del basso continuo piccolo-borghese che
disturba la sinfonia dei nuovi tempi.
L’Italia di Totò era indubbiamente ‘retrograda’ com’era retrograda, d’altronde,
quella di Giovannino Guareschi, di don Camillo e di Peppone. Non piaceva, né
poteva piacere, agli araldi della palingenesi sociale e della ‘rivoluzione
culturale’ e si può capire: con <l’arte di arrangiarsi> si sopravvive alle
tempeste della storia ma non si costruisce nulla di durevole, ci si adatta
all’imprevisto ma non si cambia registro, non si elabora un nuovo codice che
consenta di dominare il cambiamento. Eppure a ben guardare, nel ‘suddito’ c’era
una dimensione inconsapevolmente ma profondamente liberale, il cui sostanziale
misconoscimento avrebbe contribuito—assieme ad altri fattori strutturali tra i
quali non va dimenticato il ‘fattore K’-- a
tenere la sinistra italiana a lungo lontana dal potere: la chiara percezione che
non sono le leggi a fare i costumi ma i costumi a fare le leggi.
Queste ultime se non si radicano nel sentito, nel vissuto quotidiano, se
impongono agli individui modelli e standard di valore ‘astratti’ed esigenti a un
tempo, vengono avvertite come posticce e prive del calore della vita. Gli stili
di cittadinanza di cui s’inorgogliscono i riformatori di tutte le gradazioni di
colore scadono a rappresentazioni teatrali che non cessano di essere tali quando
scatenano tragedie immani come la guerra.
Il Principe De Curtis non a caso era
conterraneo del borghese Vincenzo Cuoco che, con ogni probabilità, non aveva mai
letto ma di cui condivideva,
istintivamente, il sospetto contro quanti vogliono costruire i castelli sulle
sabbie mobili di credenze importate da fuori.
Non è vero che nel personaggio al limite tra il piccolo-borghese e il
sottoproletario--così spesso da lui interpretato, ci siano fatalismo e
rassegnazione dinanzi alla violenza e all’arbitrio dei detentori del potere: la
rassegnazione non c’è ma non c’è neppure l’illusione che ai mali che
affliggono gli uomini si possa rimediare lanciando l’anima oltre l’ostacolo,
prefigurando avveniristici modelli politici che renderanno tutti più liberi e
più felici.
Totò mette alla gogna quanti dispongono delle vite degli altri, per
delirio di onnipotenza: in diversi suoi film—v. ‘Totò contro Maciste’ di
Fernando Cerchio (1962), ‘Lo smemorato di Collegno’ di
Sergio Corbucci (1962),
‘Gli Onorevoli’ dello stesso Corbucci (1963)—imita spesso e volentieri, lui uomo
di destra che dichiara al ‘Musichiere’ di votare per Achille Lauro, il tono di
voce e lo stile retorico di Mussolini che parla alle folle dal balcone di
Palazzo Venezia. Persino in ‘Totò a colori’ fa la sua entrée nel Wagon-lit,
chiamando a raccolta, con piglio ducesco,le categorie sociali del
caso--<macchinista, fuochista, ferrovieri, facchini, affini>. Non basta ad
accattivargli le simpatie dell’Italia colta e progressista, giacché rimane alla
finestra—peraltro come tutti gli autori satirici classici—non ‘partecipa’, non
impugna le armi né si mette al servizio di una causa che non sia il suo ‘particulare’.
Dinanzi all’impegno delle minoranze eroiche e con lo sguardo volto all’avvenire,
faceva osservare, a. cap.|| Aldo Capitini| nell’articolo Antifascismo
decentrato, “Liberalsocialismo”,I, febbr.1946, fasc.2*, (pp.62-63):
<Quella che
non risponde è la moltitudine degli italiani, e specialmente dei ‘borghesi’
italiani. Vogliano divertirsi, o siano travagliati dal disagio, o sentano il
richiamo della foresta fascista, o soffrano della delusione (quella delusione
che colpisce sempre chi non sa prender contatto con la ragione e il dovere
profondo del suo agire e del suo essere sulla terra, che è tragedia e non
idillio, nel quale gl’italiani eccellono): la realtà è che una minoranza opera,
pensa iniziative e le attua, e la maggioranza, non che avversi, ma non partecipa
attivamente>.
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