NAPOLI
(23 aprile 2010) - Uscirà martedì prossimo il nuovo libro di Antonio Ghirelli,
«Una certa idea di Napoli» (Mondadori, pagg. 152, euro 18), dal quale
anticipiamo una parte dedicata a Totò. Si tratta di un viaggio nel «paradiso
abitato da diavoli». Gesta, epidemie, speranze e sconfitte di un «popolo grande»
come quello napoletano, rievocate con lo spirito di un flâneur appassionato e
indomito. Tra le suggestioni di una storia antichissima, leggende popolari e
atmosfere da Belle époque ormai sbiadite, Ghirelli ci ricorda che «una certa
idea di Napoli» è quella fiamma sempre viva che ogni suo cittadino porta con sé.
Tra parole e musica, diario intimo e acuta cronaca di costume, il ritratto
romanzesco, ma tutto vero, di una città unica e magica.
L’arte di Totò è l’universalità del vicolo, la
violenza buona e incontentabile del lazzaro, l’eternità di Pulcinella principe
in sogno. È il golfo senza colera, la collina senza cemento, un pomodoro fresco
schiacciato in mezzo alla palata di pane, uno sberleffo più libero e solenne
della Marsigliese. È la ricchezza del morto di fame, una risata senza perfidia,
una sensualità senza peccato. Ci deve essere una ragione del resto, perché
perfino gli intellettuali del «Manifesto», perfino i rivoluzionari di «Lotta
Continua» abbiano dedicato ai suoi film un elogio incondizionato, quando la
critica colta – lui vivente – aveva stroncato senza pietà le porcheriole che gli
facevano girare i produttori per sfruttare fino all’osso quella inesauribile
macchina per far soldi.
Totò non si è sporcato neppure girando le idiozie e
le assurdità. Totò non era avido: era, al contrario, generosissimo di sé e del
suo denaro. La forza umana che si nascondeva in quel piccolo uomo senza cultura
e senza repertorio, era tale che una donna giovane, intelligente, preparata e
bella come Franca Faldini gli rimase fedele fino e oltre la morte. Di solito gli
attori sono legati, reciprocamente, da un sentimento incoercibile di gelosia e
di odio – un collante infame – che tiene insieme perfino i fratelli: ma Totò non
fu mai odiato, Totò non fu mai oggetto di gelosia o di invidia. Il s’imposait
comme un prince, s’imponeva come se fosse davvero un principe di stirpe reale (e
forse lo era, che importa chiederselo?). La sua grandezza era semplice com’è
appunto semplice un burattino, una marionetta, un impasto di fili, di legno e di
misero percalle. Viviani fu più sociale,
Eduardo più drammatico, Peppino più
esilarante: ma Totò, come Charlot, non può essere circoscritto da alcuna
definizione: Totò è la natura che si disarticola, è un punto esclamativo che
apre e chiude il discorso come nella grafia spagnola, è un fuoco d’artificio,
una fanfara, un «movimento» che solca lo spazio come una lingua di fuoco.
Totò trattò la parola come l’avevano trattata i dadaisti, Marinetti, Majakovskij:
solo che non se ne rese conto e non se ne rese conto perché non aveva bisogno di
capire. Gli bastava di essere, di realizzarsi, come una castagnola lanciata
contro un muro, che rimbalza sulla pietra vesuviana del selciato, scoppietta,
rotola, frigge, si spegne, tra le risate degli scugnizzi e gli strilli di falsa
paura delle commarelle. Totò è così napoletano che in fondo alle sue smorfie non
s’indovina neppure l’ombra delle lagrime che sottolineano la fine di Calvero e
lo stupito declino di Buster Keaton. la vita, per lui, fu puro teatro, come lo è
per tanti di noi. I suoi compagni di lavoro, sul set cinematografico, dovevano
compiere sforzi crudeli per non ridere di fronte alla sua favolosa, inverosimile
capacità di improvvisazione, in un’arte che atomizza e falsifica perfino una
scena d’amore. I lazzi e i fescennini dei nostri antichissimi padri osci
convivevano in lui con l’eredità dei saltimbanchi medievali, delle maschere
cinquecentesche, dei Cammarano, dei Petito, di Scarpetta. la sua recitazione si
adattava a qualunque scenario: dal San Carlino al Madison Square Garden, dal
Pallonetto al progetto Apollo. Dentro di noi, vecchi e ragazzi, napoletani e
forestieri, passatisti e rivoluzionari, Totò è ancora, sarà sempre vivo.
Purtroppo resta solo il cinema a restituircelo, ogni volta che è possibile,
mentre il teatro, dove egli fu incomparabilmente più grande, è inabissato in
fondo alla nostra memoria. Anche se a far rivivere Totò hanno tentato in molti,
chi non lo ha mai sentito come una presenza perduta è
Franca Faldini che, in un libro scritto a
quattro mani con Goffredo Fofi, ha dedicato ottanta dolcissime pagine agli anni
vissuti accanto a lui. L’affascinante donna che ancora giovane strinse con
Antonio un patto d’amore, racconta molti aneddoti sulla loro felice convivenza,
ma la pagina più toccante è quella in cui rievoca la sera più drammatica nella
vita del suo compagno: «Antonio divenne cieco in scena, sulle tavole del
Politeama
a Palermo, vestito da Napoleone, a tre passi da me... sottovoce pacato mi
disse: non ci vedo, è buio pesto». In sala nessuno se ne accorse: «Accelerando i
tempi, tagliando battute, con una vitalità selvaggia, scaricò se stesso in
una mimica frenetica che fece delirare il pubblico, e tra le ovazioni di un
teatro impazzito che urlava ”Totò sì ’na muntagna ’e zuccaro!”, si avviò a
intuito verso le quinte». Nella sua vita a parte Franca e la prima bellissima
moglie, Diana, da cui finì per separarsi, c’è
stata un’altra donna seducente e fatale, una celebre soubrette,
Liliana Castagnola, che egli ha amato
follemente in gioventù consumandosi di una gelosia asfissiante fino a
staccarsene bruscamente per non soffrire più. Distrutta dal suo abbandono,
stravolta dalla solitudine in cui è piombata, Liliana ha finito per suicidarsi.
Totò non è mai riuscito a dimenticarla e anzi con una incredibile, tenera
decisione le ha dato sepoltura nella sua tomba di famiglia, ma questo non gli ha
impedito di alternare nel tempo gli incontri più futili con altri appassionati
innamoramenti, fino a quello ultimo per la Faldini.
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