Il teatro di Totò: Quisquiglie e pinzillacchere 3/3 

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Locandina A prescindereI primi copioni non sono che canovacci « classici » della farsa napoletana a improvvisazione, indicazioni generali di una situazione, definizione di una piccola abnormità da cui derivano effetti comici grandi che il canovaccio si limita ad elencare, lasciando ai tre attori (e tra loro in primis al protagonista-scatenante: il « comico »; gli altri sono spalle) le variazioni e le invenzioni sia mimiche che verbali in grado di dilatarne gli sviluppi nelle direzioni più consone ai loro temperamenti.

 

Il movente delle azioni è la scarsità di beni essenziali, nel riconoscimento da parte degli spettatori di una comunanza rispetto a quella scarsità (la fame, lo spazio: e non inganna che qui si parli d’albergo, lo spettatore napoletano povero traduce in coabitazione famigliare, in sovraffollamento) o, per altri, del ricordo di quella scarsità e della soggiacente paura di un suo ritorno.

 

Alle origini è dunque la fame, nella sua veste più classicamente napoletana ed antica. Quando Totò si libera dal canovaccio della tradizione e inventa un suo sketch (si legga Nel separé, il più vecchio da lui scritto che siamo riusciti a reperire), la costruzione di esso somiglia a quella dei precedenti: il protagonista vi è confrontato con una situazione di inadeguatezza economica, ma la novità (relativa alla formazione della maschera di Totò) consiste nella collocazione sociale, di classe, di questa inadeguatezza:

Totò vuol comportarsi da borghese, ed è solo un piccolo-borghese. L’aggressività-viltà del quale è immediatamente indicata nella condizione economica subalterna, nella mancanza di denaro più che nell’inadeguatezza culturale all’ambiente che si vuoi affrontare.

 

 

 

Lo sketch ricorda i tanti, e anche le barzellette, sul tema del cafone al ristorante, ma in essi manca solitamente l’elemento di aggressività: lì il cafone è deriso, mentre Totò spavaldamente disturba e perturba l’ambiente borghese, vi si inserisce di prepotenza per piegarlo, senza sensi di colpa e timori di sorta, ai propri vendicativi bisogni.

 

Le variazioni su questa situazione sono tante, ma più evidenti saranno nel dopoguerra, nei film di Totò. I suoi « anni trenta » sono infatti segnati dalla ricerca di altre diramazioni del comico. Le principali ci sembrano essere quelle del travestimento, e quelle della « lunarità ». Si tratta in ogni caso di altrettanti « déplacements », di introduzioni in ambienti e situazioni e vesti diversi dalla « normalità » del personaggio — di cui s’indica spesso un retroterra che a volte ricompare vistosamente, di tipo piccolo-borghese frustrato (mogli scoccianti, superiori opprimenti).

 

Il Tarzan dell’Ultimo Tarzan; ma anche Golia, evaso e inventore di Se quell’evaso io fossi, il D’Artagnan dei Tre moschettieri, il finto pazzo di Fra moglie e marito, ecc., e più tardi, con Galdieri, le marionette Pinocchio e Orlando (per l’appunto « curioso » del mondo), e il redivivo Figlio di Jorio.

 

La « novità » del personaggio al mondo gli permette di scoprirne le incongruenze, le falsità, le assurdità, e di esprimere un candore impertinente, disinibito.

I travestimenti sono un « sale » più ovvio, ma gli effetti che Totò ne riesce a trarre (a volte costruendo su di essi tutto un lavoro, come nel caso di Uomini a nolo) rientrano nella stessa logica della « novità » aggressiva: quando Totò si fa balia, cameriera, sposina. apache, ecc., l’abito nuovo gli serve per caricare le situazioni di un sapore rivelatorio, provocatorio.

 

Si pensi, ad esempio, ai casi del Totò balia (l’aggressività verso il neonato ha corrispettivi celebri in certe cattivissime gag del primo Charlot, in Fields, ecc.) o del Totò neonato, o del Totò don-na tra don-ne.

 

 

Altrove, i pretesti hanno la mera funzione di favorire le capacità acrobatiche e marionettistiche di Totò: non solo Pinocchio o Orlando o D’Artagnan, ma anche il finto « attore acrobatico Max Singer » di Questo non è sonoro, che è una variazione del finto Charlot di Totò Charlot per amore, omaggio di Totò al grande hollywoodiano, e così via.

 

Il sodalizio di Totò con Galdieri e con la Magnani è l’introduzione dell’attore in una dimensione di fatto più « adul - ta ». Con la Magnani Totò trova una compagna popolaresca, aggressiva, sentimentale, terrestre e patetica. Un duo che fu eccezionale sotto molti aspetti, e che permise all’attore un incontro di alta classe, ma soprattutto un equilibrio di toni e di sfumature sino ad allora appena accennato.

 

 

 

L’enormità della sua maschera non ne scapita. Sia la Magnani che Galdieri la rispettano e la potenziano, ma le costruiscono attorno un sistema di raffronti più ricco, e un radicamento più concreto nel tempo. La Magnani è già in buona parte (si pensi alla stupenda « fioraia del Pincio » che il pessimo film Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca ha avuto il merito di ripresentarci) la Magnani che sarà di Roma città aperta, popolana coraggiosa, aperta, commovente, ma anche guitta e ballerina sboccata e autonoma: non una spalla, ma appunto una compagna.

 

E Galdieri, il fine e un po’ noioso Galdieri delle elaboratissime riviste piene di sforzi allegorici e di morali di buonsenso (un buonsenso assai piccolo-borghese, con molte venature qualunquiste), elabora per loro sketch e idee-guida che non li sacrificano, ma che li collocano in una catena di riferimenti alla cronaca non priva di impennate, in particolare nei frammentati copioni di Orlando Curioso, Con un palmo di naso e Che ti sei messo in testa?

 

 

 

Adesso lo spaesamento e la novità di Totò sono legati a un contesto che è quello tragico della guerra, e gli strali, dapprima ambigui, poi precisi nonostante la censura e le difficoltà del momento, poi di nuovo ambigui, si rivolgono ai responsabili della tragedia:

 

fascisti e tedeschi, e poi accessoriamente gli alleati (ed è straordinaria in genere la carica di livore, insospettata, che i copioni di rivista della Liberazione esprimono verso gli alleati, visti come nuovi occupanti).

 

I limiti di Galdieri sono evidenti: il suo garbo, la sua ironia, scivolano spesso nel crepuscolare (nella nostalgia di un cavalleresco tempo di belle époque) e spesso nel qualunquista.

 

 

Il grado di coscienza sociale di cui Galdieri fu portatore non è stato certo molto alto e il suo segno è quello di un’educata piccola borghesia incapace al solito di scoprire lo stato reale delle cose, le loro radici, fermandosi invece a quegli effetti che sconvolgevano il suo assetto e la colpivano da vicino.

 

Tuttavia, mai Galdieri è giunto al qualunquismo di certi suoi emuli (pensiamo al copione di Soffia, so’ di Garinei e Giovannini che dopo la Liberazione fu una sorta di manifesto del nascente Uomo Qualunque, e cui si prestò la Magnani), e la sua « signorilità » (non esente dal concedere a tratti a Totò una salace scurrilità) pagò, soprattutto negli anni di guerra, anche se gli impedì la franchezza comica dei copioni di due altri napoletani, Nelli e Mangini, scritti per Taranto, un comico minore ma più « socializzabile » rispetto a Totò.

 

 

 

Resta che Galdieri ha offerto a Totò la possibilità di servirsi della sua maschera, già autonomamente definita, per affrontare il terreno della satira sociale, in modi spesso graffianti e a modo loro «sovversivi » nei confronti dell’ideologia del regime in crisi. E ora Totò è pronto per il cinema, che ha sinora affrontato in quegli anni con film secondari e imprecisi.

Dai Due orfanelli in avanti (cioè dal 1947) la sua maschera si preciserà, si umanizzerà anche, ma resterà fedele alle caratteristiche definite nella rivista, di cui i testi che abbiamo raccolto forniscono una documentazione medita e, speriamo, godibile.

Napoli 1976  Quisquiglie e pinzillacchere "Il teatro di Totò" Goffredo Fofi  (Savelli editore)

 

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