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Le confessioni di Sofia; Quando il principe mi adocchiò. In esclusiva uno stralcio dell’autobiografia «Sofia Loren. Ieri, oggi, domani. La mia vita» Rizzoli Editore Della Napoli dorata è proprio lui, il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio. Lo avevo già inseguito tante volte sul set, fin dal mio arrivo a Cinecittà, nel 1950. L’avevo osservato, timida e adorante, dal basso delle mie piccole parti e dei miei pochi anni, mentre da comparsa facevo una delle «Sei mogli di Barbablù» o una ragazza di «Tototarzan» Prima ancora – ero davvero poco più di una bambina, senza lavoro e senza una lira – ero andata alla Scalera, dove il Principe stava lavorando. Mi ero introdotta in sala piano piano e uno della produzione, forse commosso dalla mia giovinezza, mi aveva fatto sedere. Totò, adocchiandomi, aveva chiesto ai suoi: «Chi è quella piccerella?». Titubante, mi ero avvicinata per presentarmi: «Scicolone Sofia, molto onorata…». Lui era stato dolce, mi aveva sorriso e mi aveva offerto un po’ del suo tempo prezioso. «Che ci fa qui una guaglioncella come te? Da dove vieni?» «Sono di Pozzuoli, sono qui per fare il cinema…» «Ah, il cinema» aveva sospirato, dedicandomi una delle sue celebri facce. Per un istante la sua ironica, irresistibile malinconia fu tutta per me. La bevvi, come un bicchiere d’acqua fresca, e mi sentii più forte. Se Totò mi stava regalando un pizzico della sua attenzione, significava che tutto era possibile. Che tutto il meglio era già qui. Ma il Principe non si era limitato alle parole. Alla fine, intuendo ciò che avevo tentato di nascondere, mi aveva messo in mano centomila lire. Credo mi avesse letto negli occhi la fame: di cibo, di lavoro, o forse più semplicemente di cinema. Io e mammina ci mangiammo a lungo, come se avessimo vinto al lotto.
La figlia Liliana racconta che un pomeriggio, vedendomi comparire nel suo camerino sul set di «Barbablù», Totò ebbe quasi un mancamento. «È pericoloso contemplare certi panorami alle due del pomeriggio, tra promontori e insenature mi si è bloccata la digestione.» Avendo avuto l’onore di conoscerlo, posso dire che il re dei comici recitava sempre, anche fuori dal set, e avrebbe dato la vita per una battuta. Lo avevo incontrato di nuovo nel 1953 – un anno per me denso di film, a cominciare dall’Aida – in due occasioni più importanti. In «Miseria e nobiltà», tratto da una farsa di Eduardo Scarpetta, è Felice Sciosciamocca, scribano squattrinato il cui nome è già tutto un programma, che viene assoldato con la sua famiglia da un marchesino perché recitino davanti ai suoi la parte dei parenti aristocratici della fidanzata Gemma (la sottoscritta!), che lui vorrebbe sposare. «Alla faccia di Cartagine e di tutti i cartaginesi» esclama Totò quando mi vede nelle vesti della futura sposa. «Noi ti accoglieremo nel seno della nostra famiglia, e tu accoglici sul tuo seno…» Il Principe era irresistibile, stargli al fianco scioglieva qualunque paura e qualunque imbarazzo.
Anche perché si inventava al momento metà del copione, e nessuno riusciva a trattenerlo. Così accade nella famosa scena in cui si infila in tasca gli spaghetti, che è entrata a far parte della storia del cinema e che parla della fame del nostro popolo, quella di Pulcinella e quella che ho vissuto a Pozzuoli durante la guerra. Una fame che si può combattere soltanto con l’arma del sorriso, con quella leggerezza piena di spirito di cui siamo intrisi noi napoletani. Napoli rimane per me la città e il popolo più belli d’Italia. Ha visto tante sconcezze, tante brutture, e oggi ha bisogno di poter pensare a un domani migliore. Forse è per questo che, nel 2013, quando mio figlio Edoardo mi propose di girare la «Voce umana» di Cocteau a Napoli, accettai con immensa gioia. È il mio piccolo contributo di speranza alla terra che amo. La vita mi ha portato lontana dalle mie radici, ma il mio cuore resta lì, nella luce, nella lingua, nella cucina partenopee. Più passa il tempo, e più mi viene da parlare in napoletano. Forse perché in napoletano mi esprimo meglio, riesco a dire cose che non posso dire in italiano, tanto meno in inglese o in francese.
Ci metto così tanto amore, in questa lingua, che pure i miei figli mi capiscono quando la parlo, e ora perfino i nipotini. Lo stesso vale per i piatti della tradizione, che mi riportano a casa, nella cucina di via Solfatara. Lì trascorrevo le mie giornate, tra i profumi e gli aromi della povertà. Lì il canto di mammà e il calore della stufa mi facevano compagnia e, quando c’erano i soldi, il ragù borbottava nella pentola. Oggi non cucino spesso, mangio poco, sempre presa tra mille pensieri. Ma quando arrivano i miei figli dall’America e mi chiedono una ricetta speciale, mi rintano nel mio regno e mi sento di nuovo a Pozzuoli. L’impresa che mi dà più soddisfazione è la Genovese, quei cinque chili di cipolle rosolate fino a diventare mosce, e dentro gli involtini di carne, a cuocere per quattro ore. In questa vita diventata così veloce, quattro ore sono un tempo infinito, quello che mi occorre a risalire gli anni fino alla mia infanzia lontana. Per tornare a Totò, lo avevo incrociato ancora in «Tempi nostri», diretto niente meno che da Alessandro Blasetti. Altro grande maestro del nostro cinema, Sandro aveva creduto in me quando ancora non ero nessuno. Anche questo era un film a episodi, uno zibaldone che metteva insieme tutti i protagonisti del tempo, da De Sica a Mastroianni, da Yves Montand ad Alberto Sordi, da Eduardo al magico Quartetto Cetra.
Alla “tastiera”, Moravia e Pratolini, Marotta e Bassani, Achille Campanile, Sandro Continenza e Suso Cecchi D’Amico. Io lavoravo proprio con Totò, nell’episodio in cui lui, fotografo di professione, viene derubato della sua macchina fotografica mentre cerca di abbordare una bella ragazza, che poi sarei io. Si dice che Blasetti fosse rimasto sedotto dalla mia capacità di accompagnare il grande guitto. Io che amavo studiare a fondo il copione, magari anche in anticipo, in quel caso capii che sarebbe stato inutile. A Totò piaceva improvvisare, farciva il canovaccio di mossette, di invenzioni, di sogni. Tanto valeva lasciarsi andare alla sua corrente, cercando di non perdere il passo. In quell’occasione, essere cresciuta a Pozzuoli mi aiutò. I nostri spiriti napoletani – fatti di intuito, di fiuto, di ironia – si incontrarono e fecero scintille. Con Totò non avrei più lavorato. Blasetti, invece, l’avrei incontrato di nuovo di lì a poco, in un altro film che da allora mi porto sempre nel cuore.
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