Il
regista Ugo Gregoretti, che da poco ha compiuto
80 anni, è uno degli Autori del ‘900 più colti, arguti, originali e
intelligenti.
Mai impegnato nel presenzialismo mondano e incapace di seguire altre idee che le
proprie, preferendo barattare una popolarità di massa con una carriera ironica e
personalissima che è un vero doppio della sua esistenza umana.
Un regista, un Autore così non poteva non incontrare un Attore della levatura di
Antonio De Curtis.
Negli anni 50/60 Gregoretti, come molti italiani, vedeva i film recitati dal
Principe, nei panni del suo personaggio Totò.
Essendo all’interno di quel mondo della celluloide, ed essendo un regista di
alto livello culturale, dietro le quinte aveva compreso una possibilità profonda
di espressione assieme ad Antonio De Curtis, attore di raffinata preparazione,
capace di gestire i gradi dell’ironia e non solo i tempi della comicità più
sfrenata e buffonesca.
Ugo Gregoretti avrebbe voluto continuare la collaborazione con l’Attore oltre il
primo film “Le belle famiglie” del 1964, in cui Totò,
o meglio, Antonio De Curtis, è presente in uno dei quattro episodi che lo
compongono: “Amare è un po’ morire”, assieme ad altri grandi attori: Sandra
Milo, Jean Rochefort ed Adolfo Celi.
Questo film purtroppo fu subito stroncato da ingiuste critiche che ne
decretarono un fallimento immeritato.
Il film, seguendo la dissacratoria ironia tipica del regista e ben adatta agli
interpreti scelti, è un prodotto ancor oggi gradevolissimo e soprattutto, per
quasi tutti gli episodi, ancor molto attuale e godibile.
Oggi l’ostacolo sarebbe
prevalentemente l’essere stato girato ancora in bianco e nero.
L’idea di fondo, illustrata nei quattro episodi, è la lettura ironica di alcuni
comportamenti tipici della famiglia in Italia.
Il
primo episodio, ”Il Principe Azzurro”, vede una giovane Annie Girardot nei panni
di una povera ragazza siciliana, vessata dal maschilismo imperante tra le mura
di casa.
La ragazza, posta davanti alla scelta: nozze con uomo che ripugna o convento di
clausura, obbedendo alle direttive paterne, ma così facendo, destabilizzando per
sempre il maschilismo e il ruolo di comando del padre, sceglie la clausura, le
cui pratiche e rinunzie le appaiono rosee prospettive al confronto della vita
fino ad allora condotta nella casa paterna.
Il secondo episodio, interpretato da un Nanni Loy dall’aplomb anglosassone, è
bellissimo e verte sui gusti sessuali di una coppia che paiono, alla fine,
convergere sull’esotismo di un cameriere vietnamita “Bastardo della Regina”.
Il terzo episodio: “La
Cernia” traccia un graffiante confronto tra una coppia nostrana e una di
altissimi teutonici. Dall’analisi emerge la piccolezza dell’ideale del maschio
italiano che non è neppure la conquista, quanto, piuttosto, il fare “becco”
‘altro, non essendo in grado di accettare l’alternanza delle “corna” nel gioco
dei tradimenti, che, nella sua trionfante ignoranza, crede di essere l’unico a
saper condurre.
Infine il quarto episodio, “Amare è un po’ morire”, il più forte, soprattutto
per la tematica dissacrante, tutta impersonata in una Sandra Milo
appropriatissima in un ruolo di moglie/amante per lei inedito nella chiave assistenzialistica in cui è proposto.
In questo episodio Gregoretti ha individuato Antonio De Curtis per interpretare
il protagonista, Filiberto Comanducci, marito di Esmeralda, Sandra Milo. Un
ruolo che, tanto per la malattia arteriosclerotica, quanto per la situazione di
uomo tradito, avrebbe potuto, con facilità, divenire una macchietta delle più
ridanciane e volgari.
L’attore ha saputo invece comprendere le intenzioni del regista, che gli offriva
uno dei ruoli migliori di quanti gliene proponessero in quegli anni.
I ricordi di Gregoretti ci fanno subito capire come andò. Il regista, che
conosceva personalmente l’attore, gli aveva accennato a questo ruolo,
ottenendone da subito un diniego.
Gregoretti, sicuro di volere quell’attore, attuò allora una strategia: ottenere
l’assenso dell’Attore alla partecipazione al film come favore tra pari
appartenenti ad una medesima koinè cultural/aristocratica, percorrendo una via
particolarmente attraente per l’attore.
Pertanto, trovandosi invitato a casa De Curtis, dove era sempre ben accolto
anche per essere sua moglie appartenente ad una nobile e antica famiglia,
durante la conversazione lasciò casualmente “cadere” alcuni particolari che
evidenziavano come anche la propria madre aveva analoghe nobili ascendenze.
Dato
all’Attore il tempo di digerire, e verificare, con testi araldici della sua
biblioteca, la veridicità di tali informazioni, la conversazione riprese
veleggiando liberamente verso un accordo per la partecipazione del Principe alla
pellicola, ormai vista come una cortesia tra aristocratici.
L’interpretazione di Antonio De Curtis in questo film è bellissima, senza gli
“abiti da lavoro” del suo personaggio Totò, il Principe ci mostra il suo viso
bello e intelligente che, con misura, come un attore anglosassone sulle tavole
dell’Old Vic, tratteggia finemente e con una surreale ironia, priva di equivoci
o doppi sensi, un ruolo maschile, che avrebbe potuto con facilità trasformarsi
in un “Cocù” da vaudeville, dandogli invece una caratura lunare e un pallore che
lo rendono ancor oggi fresco e attuale.
La descrizione dell’incidente occorso a Filiberto in sella alla sua cyclette,
investito da un comò è degno di Alec Guiness agente del controspionaggio
britannico, che disegna piani di armi segrete copiando il libretto d’istruzione
dell’aspirapolvere.
Si sente la presenza di Gregoretti, ma il Principe, che ha fatto suo il punto di
vista della regia, agisce in tutto e per tutto in piena autonomia.
Ricorda ancora Gregoretti che l’attore arrivava sul set non prima delle 11,30,
attorniato da camerieri e assistenti che gli stavano intorno chiamandolo
“Principe” o “Altezza”. Totò era già praticamente cieco, aveva perso la vista ad
un occhio fin dal 1938 e nel 1957, a Palermo, in tourneè aveva avuto la prima
avvisaglia della malattia che in breve lo avrebbe reso cieco.
Di questa grave sofferenza erano a conoscenza poche persone.
La testimonianza di Gregoretti è precisa; il Principe giungeva accompagnato da
persone di fiducia sul set. Ascoltava ciò che accadeva attorno a lui e, chiamato
in scena, vi entrava perfettamente ”Come se avesse un radar a guidarlo”.
Questo set fu particolarmente diversificatio nei luoghi di azione e l’Attore si
faceva approntare dei veri e propri Pic-Nic, nelle pause della lavorazione,
aristocraticamente gestiti dal personale che lo accompagnava e che gli serviva
raffinati spuntini con porcellane e posate. Spesso, ricorda Gregoretti, che con
signorilità il Principe lo chiamava e gli offriva un goloso boccone dicendo:
“gradite un puparuolo?”.
“Amare è un po’ morire” narra di Esmeralda che si divide tra l’assistenza al
marito, sofferente di attacchi di arteriosclerosi, e quella prodigata
all’amante, Osvaldo, affetto da problemi urinari.
La donna conserva in un cofanetto chiuso a chiave, non le lettere d’amore di
Filiberto e di Osvaldo, ma bensì le ricette dei medicinali di cui essa è
dispensatrice.
Per svagare i suoi uomini sofferenti, li porta in campagna; ma al posto del
cestino con i cibi fa scorta in farmacia di specialità e, addirittura, di una
nuovissima siringa a pistola, costosa ma infallibile!
Ma,
improvvisamente, ambedue gli ammalati, guariscono.
Esmeralda accusa pesantemente il colpo e assimila le guarigioni come tradimenti
amorosi che tenta di superare ubriacandosi. Filiberto e Osvaldo, coalizzati dal
comune affetto per la donna, chiamano nuovamente il Professor La Porta, il
“loro” medico, interpretato da Adolfo Celi.
Questi, già respinto da Esmeralda poiché perfettamente sano, allontanandosi
bruscamente, poiché nuovamente respinto, rimane vittima di un gravissimo
incidente; Esmeralda richiamata da questo evento vive così un nuovo amore,
sicuro, poiché le menomazioni del professore non sono passibili di guarigioni.
Questi 35 minuti di pellicola non possono essere trascurati dagli appassionati
del Principe, che hanno in quest’episodio la possibilità di godere l’Attore
amato in una bella interpretazione che ci lascia orfani di una produzione
cinematografica del Principe che avrebbe potuto essere e che non è stata.
Gregoretti medesimo pensava ancora al Principe per uno dei personaggi del
circolo Pickwik che poi affidò, dopo la morte di Totò, a
Tino Buazzelli.
Non possiamo ancora una volta che dispiacerci , così come
Franca Faldini ha
ricordato, che la morte abbia colto il Principe prima che potesse interpretare,
diretto da Pier Paolo Pasolini, un film totalmente muto, basato solo sulla
comunicazione dell’espressività del volto e del corpo dell’Attore.
Firenze 6 Marzo 2011 Emanuela Catalano
Copyrigth
artemanuela.it 2011
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