Nel
mio film io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte
cè il sottoproletariato napoletano, e dallaltra c'è il puro e semplice
clown, il burattino snodato, l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due
caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che
l'ho usato. Nel mio film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o
come sottoproletario, cioè come lavoratore.
E il suo non accorgersi della storia è il
non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole
accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali.
lo
uso attori e non attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo
per quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore, lo
prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando ha cominciato
a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho fatto un altro
personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò.
Naturalmente un attore porta in questa
operazione la sua coscienza e magari anche la sua opposizione al fatto di essere usato per
quel brano di realtà che lui è. Molte volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma
sostanzialmente il risultato espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali
di un attore, ma di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo
una persona per quello che è intendo soprattutto come uomo.
Nel fondo di Totò c'era una
dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel tipico
qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è distacco dalle
cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando io dico Totò nella sua
realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore.
La
mia ambizione in Uccellacci è stata quella di strappare Totò dal codice, cioè di
decodificarlo. Com'era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era
il codice del comportamento dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata
alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse
culturale. Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso
quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di fuori di
tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso questo codice,
allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di
interpretare Totò.
E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto
il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo fare gli sberleffi alle spalle degli
altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e
indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa
le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe
sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma
è una sfottitura leggera e mai volgare.
Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che veniva fuori in quel modo
strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho opposto in quanto protagonista
all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che sta nelle cose, non sta
in Totò o nel corvo che fa l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho
opposto un personaggio innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori
dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive
in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza
a storia.
Il
rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Totò ha probabilmente deciso sin
dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come in un certo senso,
Eduardo De Filippo e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di
origine napoletana, ma non strettamente napoletano.
La sua lingua è stata una specie di
mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale, emigrato in una
città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua
militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare comune, per esempio quello
sportivo, mettiamo.
Nell'uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo, ho
eliminato le parole dette fra virgolette, le citazioni burocratiche o militaresche o
sportive, e gli ho dato un linguaggio che non è un linguaggio puramente dialettale,
mettiamo o il napoletano o il romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare
un immigrato meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue
caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove. (1973)
>articolo correlato: Per un cinema
ideologico e surreale "Pier Paolo Pasolini"<
>articolo correlato: Totò biografia-L'ultimo
incontro<