Se la maschera dell’ ‘umiliato e offeso’ di Totò
non si associasse a un’arte comica travolgente - nel teatro di Firenze in cui si
davano i suoi spettacoli di varietà, nell’immediato dopoguerra, poteva capitare
che qualche spettatore si sentisse male per il troppo ridere - rimarrebbe
espressione di un’Italia minore, relegata nei locali di quart’ordine.
Il
‘guaio’, invece, è che Totò sullo schermo, com’è stato rilevato, da vittima
diventa esecutore: non c’è autorità che non venga messa alla berlina, sulla
quale non riversi un’irrisione dissacrante che, per il fatto di procedere a
ruota libera, menando fendenti a destra e a sinistra, finisce per risultare
irritante anche per quei politici che avrebbero dovuto, invece, essergli grato
per aver mostrato le nudità dei loro avversari.
Nel nostro paese, infatti,
quanti sono politicamente impegnati - anche nel senso che s’interessano solo da
‘tifosi’ alle vicende dei partiti e alle sorti dei governi e delle maggioranze
parlamentari - si divertono solo se nella comicità ci sono una ‘logica’, un’arrière
pensée etico-pedagogica, quel “castigat ridendo mores” che, in ‘Totò
sceicco’ di Mario Mattoli (1950), diventa
esso stesso motivo di scherno. (Passando in rassegna le truppe, il ‘figlio dello
sceicco’, Omar--”guarda Omàr quant’è bello! “-- schiaffeggia i soldati ridendo e
alla domanda “ma cosa stai facendo” risponde “castigo ridendo i Mori!”). Si
pensi alla ricordata gag del vagone letto in ‘Totò a colori’.
Il simbolo dell’autorità, l’onorevole Cosimo Trombetta (la spalla per
antonomasia, Mario Castellani) diventa
oggetto di un tormentone (a teatro poteva durare fino a venti minuti!)
culminante nell’immancabile reazione di Totò davanti a medici, avvocati,
professori, ministri - l’élite del potere insomma: “Onorevole Lei? Ma mi faccia
il piacere…!”.
Il fastidio che il Maestro Antonio Scannagatti sa dare al
malcapitato ‘rappresentante del popolo’(verosimilmente democristiano)--dal
continuo mettergli le mani addosso contro cui invano il Trombetta protesta (“Ma
se io la tocco, lei perché mi fa il ritocco’?” si sentirà dire) alle valige
gettate giù dal finestrino - è la vendetta dell’uomo della strada contro
l’eterno caporale, ieri in camicia nera, oggi nell’impeccabile abito della
Sartoria Caraceni. Il pubblico ride grazie all’effetto transfert: vedendo
scendere la statua dal piedistallo, ridotta alle sue misure umane e tanto
irritata da andare in bestia, si sente vendicato.
Beninteso non era con questa irrisione che si facevano le ‘riforme’ di cui il
paese uscito stremato dalla guerra e dalla dittatura, aveva bisogno.
E nondimeno
bisognerebbe prendere (finalmente) atto che, come ho avuto modo di far rilevare
nell’articolo "Sul difficile rapporto tra la Chiesa cattolica e la democrazia
liberale", pubblicato il 26 marzo scorso su ‘L’Occidentale’, nella teoria e
nella prassi delle nostre contrade occidentali, si fronteggiano da almeno due
secoli “due diverse concezioni della democrazia, laica e secolarizzata, l’una,
etica e pedagogica, l’altra.
In base alla prima, la democrazia è un valore solo
come strategia di pacificazione, un marchingegno istituzionale, non certo
iscritto in rerum natura, per far convivere una pluralità di cittadini, di
gruppi, di credenti che hanno diversi interessi e concezioni del mondo ma che
nondimeno ritengono vantaggioso unirsi in una ‘comunità politica’ - lo Stato,
nazionale o federale che sia - e sono disposti, in conseguenza, a pagare lo
scotto della rinuncia a tradurre (tutte) le loro convinzioni morali in leggi
vincolanti ‘erga omnes’.
In base alla seconda, la democrazia è un valore solo se
eleva materialmente e spiritualmente i cittadini, realizzando un ‘bene comune’
ottenuto attraverso il superamento del loro egoismo, del loro ‘particulare’”.
Ad attenersi alla prima accezione, il ‘mondo di Totò’ non era condannato alla
‘bonifica’ - come volevano Piero Gobetti e i suoi vari eredi azionisti - ma
doveva essere indotto, a poco a poco, ad accettare le inevitabili trasformazioni
del suo habitat storico e naturale, con una sapiente strategia in grado di
utilizzare quel tanto di positivo che c’era nei suoi ‘retrogradi’ costumi - a
cominciare dal deprecato ‘familismo’ che nel nostro sud spesso si allarga
generosamente per diventare ‘etica dell’accoglienza’ e dell’ospitalità.
Il personaggio-Totò, sadico coi potenti che gli vengono a tiro, è sempre pronto a
dividere quel poco che ha con chi è come lui o sta peggio di lui - siano
‘cristiani’ o animali come l’indimenticabile cane Mustafà ne ‘La banda degli
onesti’.
Agli umili come lui - tanto più divenuti cittadini e partecipi della
sovranità repubblicana - si dovevano garantire un minimum di solidarietà e di
comprensione ‘culturale’, nel senso antropologico del termine ed invece,
paradossalmente, essi, le vittime più facili e numerose dei bombardamenti e
degli sfollamenti e come tali quelle più autorizzate a prendersela col fascismo
che li aveva coinvolti in tre guerre (la prima coloniale, in Etiopia, la seconda
locale, in Spagna, la terza, più disastrosa e irreparabile, a fianco della
Germania nazista) vennero ritenute le sia pure involontarie complici del regime
mussoliniano, in virtù della loro ‘cultura del suddito’, e dimenticando che ‘le
camice nere della Rivoluzione’ furono espresse dal Nord e dal Centro-Nord ma non
trovarono nel Sud se non un’estraneità insormontabile mista all’antica passività
nei confronti di ogni invasione straniera.
A capire quella gente “di bassa
aristocrazia”--come si autodefinì uno dei loro, il velocista abruzzese Vito Taccone, nella trasmissione di Sergio Zavoli ‘Processo alla tappa’ - non erano
Ugo La Malfa o Piero Calamandrei ma i parroci, fossero simpatizzanti di Giuseppe
Dossetti o, com’era più frequente, di Luigi Gedda.
Erano loro che si erano
assunti il compito di ritessere i legami comunitari, di organizzare vaste reti
di soccorso bianco, di dirottare la carità privata e l’assistenza pubblica verso
i focolari domestici più bisognosi. Non è casuale che mai una figura di prelato
sia divenuta oggetto di caricatura o di satira irriverente nei tanti film
interpretati dal Principe--‘Il Monaco di Monza’ di
Sergio Corbucci (1963),si sa, è un finto
monaco, come l’Antonio Capurro dell’anno prima nel film ‘I
due Marescialli’, mentre il frà Timoteo de ‘La
Mandragola’ di Alberto Lattuada (1965) è la versione cinematografica della
celeberrima commedia di Nicolò Machiavelli.
Fuor di dubbio, lo avrebbe impedito
la censura, particolarmente vigile nei primi due decenni del dopoguerra, ma
assai più della censura a impedirlo era la prossimità degli uomini di chiesa al
mondo dei ‘petits’. (Quella stessa Chiesa, tra l’altro, e neppure questo va
dimenticato che si rifiutò di benedire la salma di Totò alla presenza della
‘moglie biblica’ Franca Faldini).
Se la DC, nel
1948, prese una valanga di voti lo dovette proprio alla sua vocazione
‘popolare’, all’appoggio massiccio di quella ‘subcultura’, la cattolica per
l’appunto, che era rimasta estranea ed ostile al processo di unificazione
politica della penisola e quando, per la prima volta, aveva ispirato un partito
politico - il PPI nel 1919-- lo aveva fatto nascere dal basso, da un prete
siciliano, Luigi Sturzo, infaticabile promotore, nella sua città di Caltagirone,
delle più varie imprese artigianali e agricole.
Totò rappresentava la dimensione poetica, l’autocoscienza o meglio la
sublimazione tragicomica del qualunquismo sicché, al fondo dell’insofferenza che
producevano nell’animo della classe colta e dei borghesi snob i suoi film,
bisogna leggere, soprattutto, la tendenza a fare della sua ‘razza dello spirito’
il capro espiatorio di tutti i disastri piovuti addosso al paese. Poteva pure
parodiare il duce nell’inimitabile discorso di ’Totò
contro Maciste’ –non lo si può riascoltare senza scompisciarsi dalle risa:
”Uomini di Tebe, Soldati, Richiamati |…| L’ora della riscossa è giunta! Vuoi tu
combattere contro l’assiro secolare nemico delle nostre genti? |..|
Abbiamo
spade, frecce, mortaretti trictrac e castagnole |..| Spezzeremo le reni a
Maciste e ai suoi compagni, a Rocco e ai suoi fratelli”, tutte frasi, tra
l’altro, pronunciate arrotando le erre e scandendo ducescamente le parole - ma
la sua ‘antipolitica’ , come quella di Guglielmo Giannini, nell’impietoso
ritratto di Luigi Salvatorelli, era liquidata come il cavallo di Troia del
rinascente, intramontabile, fascismo italico.
"La lotta contro l’antifascismo - scriveva lo storico piemontese ne ‘La Nuova Europa’ del 24 febbraio 1946, è stata mascherata con la vecchia scemenza
dell’antipoliticismo, dello stato puramente tecnico o amministrativo, scemenza
che si tradurrebbe, nel fatto, sotto pretesto di libertà, dell’onnipotenza
dell’amministrazione governativa sui cittadini rinunciatari politicamente e nel
dominio di questa amministrazione, per conto del partito unico qualunquista:
fascismo, cioè, al cento per cento”.
Non tutta la ‘political culture’, però, condivideva le incomprensioni fatali
dell’azionismo - di cui Salvatorelli era, pur nella sua relativa moderazione,
una delle figure più prestigiose. Un suo grande, e dimenticato conterraneo,
lettore attento e geniale di Vilfredo Pareto, Filippo Burzio, nel 1945, pensava
quasi a un ‘liberalismo di massa’, aderente al sentire popolare e per nulla
altezzoso nei confronti di un movimento ‘plebeo’ come l’Uomo Qualunque.
“Voi potete, pertanto, elevare dei dubbi sulla sincerità dei motivi, sulla
serietà e profondità dell’evoluzione che ha portato testé il qualunquismo a
cambiare la propria denominazione, intitolandosi” Fronte liberal-democratico
dell’Uomo Qualunque”; ma non dovreste che rallegrarvene, pur restando sul chi
vive, e magari rifiutandosi a intese o fusioni premature.|…| Che la Destra, nel
suo odierno travaglio costitutivo si organizzi intorno ai grandi principi
liberali, sia pure, com’è naturale, intesi in senso conservatore |..| è cosa
altamente auspicabile. Che dalla informe crisalide qualunquista, per espulsione
sincera dei relitti neofascisti (i quali vadano così a costituire un’infima e
inane destra totalitaria), esca col tempo una farfalla liberale, è metamorfosi
ancora oggi assai incerta, ma che, se si effettuasse, dovrebbe esser veduta di
buon occhio anche a sinistra.
Perfino quel concetto dello Stato amministrativo -
che sembra costituire, a tutt’oggi, il maggior bagaglio ideologico del
qualunquismo - potrebbe venire considerato senza troppa diffidenza, se si pensi
al bell’uso, e alla splendida interpretazione, che il fascismo fece del concetto
opposto dello Stato etico, sacro ai ricordi hegeliani dell’antica Destra. Esso
traduce, a suo modo, quell’universale avversione odierna alla statolatria, sia
di destra che di sinistra, sia nazifascista che comunista |…| uno dei maggiori
segni dell’epoca”.
L’incontro tra il mondo di Totò e di Guglielmo Giannini com’è noto amico e
collaboratore del Principe in spettacoli teatrali e cinematografici--,da una
parte, e la democrazia liberale, dall’altra ,com’era prevedibile, andò a vuoto
proprio come quello, mancato, tra Totò e Charlie Chaplin negli anni cinquanta in
Costa Azzurra. Si potrebbe dire :a causa della debolezza strutturale della
seconda - anche nei partiti laici più moderati soffocata dalla democrazia
etico-pedagogica - e della progressiva erosione del primo, incalzato da un
confuso processo di modernizzazione accelerato dalla TV, dalle emigrazioni
interne che avrebbero fatto di Torino la terza città meridionale, dalla
sostanziale incapacità dei custodi delle credenze religiose di adeguarsi ai
tempi, guidando e non pretendendo di arrestare il cambiamento, con
anacronistiche condanne di costumi ormai inestirpabili.
Non tutto però è andato perduto e buttato nel cestino della storia. Quanto
scrive Giovanni Orsina, ne Le virtù liberali del qualunquismo-- in Guglielmo
Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, Ed. Rubbettino,
Soveria Mannelli 2002 - ci dà la chiave interpretativa per intendere cosa
l’”umile Italia” di Guareschi, di Totò, di Giannini abbia rappresentato e quali
insegnamenti, dopo tante ubriacature ideologiche dal ’68 in poi, possa ancora
trasmettere alle nuove generazioni che ignorano le lacerazioni sociali e
conflitti ideologici sottese dietro i film ‘leggeri’ di Totò.
“Il qualunquismo |..| ha rappresentato per molti versi la crisi di rigetto di
una società civile esposta a un eccesso di politica, ovvero una conseguenza
dell’età dei totalitarismi - e in questo senso è stato perciò un fenomeno
liberale.|…| Per quanto condannata all’insuccesso, almeno nella sua forma
‘pura’, la vicenda dell’Uomo qualunque rimane tuttavia interessante non soltanto
per quanto di critico ha espresso nei confronti della realtà politica italiana,
ma anche perché, sebbene in maniera istintiva e confusa, ha suggerito
l’esistenza di una via totalmente alternativa allo sviluppo del paese. E’ la via
per la quale |…| l’intervento ortopedico del potere pubblico viene ridotto al
minimo indispensabile, e ci si affida invece all’evoluzione autonoma della
società civile. Che per gran parte della nostra storia, e soprattutto in alcune
aree del paese, questa società civile sia stata afflitta da difetti gravissimi,
tali da renderla inadatta all’impianto e al buon funzionamento di un governo
rappresentativo e limitato è fuor di dubbio. E’ però anche vero che i progetti
ortopedici, pure quando nascevano dalle migliori intenzioni, sono poi quasi
sempre stati colpiti dall’eterogenesi dei fini.”
Meglio non si poteva dire.
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