L'umile Italia di Totò che fa fuori la "casta" a colpi di risate

di Dino Cofrancesco


L'umile Italia di Totò che fa fuori la "casta" a colpi di risate

Articolo di Dino Cofrancesco

 

 

Se la maschera dell’ ‘umiliato e offeso’ di Totò non si associasse a un’arte comica travolgente - nel teatro di Firenze in cui si davano i suoi spettacoli di varietà, nell’immediato dopoguerra, poteva capitare che qualche spettatore si sentisse male per il troppo ridere - rimarrebbe espressione di un’Italia minore, relegata nei locali di quart’ordine.

Il ‘guaio’, invece, è che Totò sullo schermo, com’è stato rilevato, da vittima diventa esecutore: non c’è autorità che non venga messa alla berlina, sulla quale non riversi un’irrisione dissacrante che, per il fatto di procedere a ruota libera, menando fendenti a destra e a sinistra, finisce per risultare irritante anche per quei politici che avrebbero dovuto, invece, essergli grato per aver mostrato le nudità dei loro avversari.

Nel nostro paese, infatti, quanti sono politicamente impegnati - anche nel senso che s’interessano solo da ‘tifosi’ alle vicende dei partiti e alle sorti dei governi e delle maggioranze parlamentari - si divertono solo se nella comicità ci sono una ‘logica’, un’arrière pensée etico-pedagogica, quel “castigat ridendo mores” che, in ‘Totò sceicco’ di Mario Mattoli (1950), diventa esso stesso motivo di scherno. (Passando in rassegna le truppe, il ‘figlio dello sceicco’, Omar--”guarda Omàr quant’è bello! “-- schiaffeggia i soldati ridendo e alla domanda “ma cosa stai facendo” risponde “castigo ridendo i Mori!”). Si pensi alla ricordata gag del vagone letto in ‘Totò a colori’.

Il simbolo dell’autorità, l’onorevole Cosimo Trombetta (la spalla per antonomasia, Mario Castellani) diventa oggetto di un tormentone (a teatro poteva durare fino a venti minuti!) culminante nell’immancabile reazione di Totò davanti a medici, avvocati, professori, ministri - l’élite del potere insomma: “Onorevole Lei? Ma mi faccia il piacere…!”.

Il fastidio che il Maestro Antonio Scannagatti sa dare al malcapitato ‘rappresentante del popolo’(verosimilmente democristiano)--dal continuo mettergli le mani addosso contro cui invano il Trombetta protesta (“Ma se io la tocco, lei perché mi fa il ritocco’?” si sentirà dire) alle valige gettate giù dal finestrino - è la vendetta dell’uomo della strada contro l’eterno caporale, ieri in camicia nera, oggi nell’impeccabile abito della Sartoria Caraceni. Il pubblico ride grazie all’effetto transfert: vedendo scendere la statua dal piedistallo, ridotta alle sue misure umane e tanto irritata da andare in bestia, si sente vendicato.


 


Beninteso non era con questa irrisione che si facevano le ‘riforme’ di cui il paese uscito stremato dalla guerra e dalla dittatura, aveva bisogno.

E nondimeno bisognerebbe prendere (finalmente) atto che, come ho avuto modo di far rilevare nell’articolo "Sul difficile rapporto tra la Chiesa cattolica e la democrazia liberale", pubblicato il 26 marzo scorso su ‘L’Occidentale’, nella teoria e nella prassi delle nostre contrade occidentali, si fronteggiano da almeno due secoli “due diverse concezioni della democrazia, laica e secolarizzata, l’una, etica e pedagogica, l’altra.

In base alla prima, la democrazia è un valore solo come strategia di pacificazione, un marchingegno istituzionale, non certo iscritto in rerum natura, per far convivere una pluralità di cittadini, di gruppi, di credenti che hanno diversi interessi e concezioni del mondo ma che nondimeno ritengono vantaggioso unirsi in una ‘comunità politica’ - lo Stato, nazionale o federale che sia - e sono disposti, in conseguenza, a pagare lo scotto della rinuncia a tradurre (tutte) le loro convinzioni morali in leggi vincolanti ‘erga omnes’.

In base alla seconda, la democrazia è un valore solo se eleva materialmente e spiritualmente i cittadini, realizzando un ‘bene comune’ ottenuto attraverso il superamento del loro egoismo, del loro ‘particulare’”.

 

Ad attenersi alla prima accezione, il ‘mondo di Totò’ non era condannato alla ‘bonifica’ - come volevano Piero Gobetti e i suoi vari eredi azionisti - ma doveva essere indotto, a poco a poco, ad accettare le inevitabili trasformazioni del suo habitat storico e naturale, con una sapiente strategia in grado di utilizzare quel tanto di positivo che c’era nei suoi ‘retrogradi’ costumi - a cominciare dal deprecato ‘familismo’ che nel nostro sud spesso si allarga generosamente per diventare ‘etica dell’accoglienza’ e dell’ospitalità.

Il personaggio-Totò, sadico coi potenti che gli vengono a tiro, è sempre pronto a dividere quel poco che ha con chi è come lui o sta peggio di lui - siano ‘cristiani’ o animali come l’indimenticabile cane Mustafà ne ‘La banda degli onesti’.

Agli umili come lui - tanto più divenuti cittadini e partecipi della sovranità repubblicana - si dovevano garantire un minimum di solidarietà e di comprensione ‘culturale’, nel senso antropologico del termine ed invece, paradossalmente, essi, le vittime più facili e numerose dei bombardamenti e degli sfollamenti e come tali quelle più autorizzate a prendersela col fascismo che li aveva coinvolti in tre guerre (la prima coloniale, in Etiopia, la seconda locale, in Spagna, la terza, più disastrosa e irreparabile, a fianco della Germania nazista) vennero ritenute le sia pure involontarie complici del regime mussoliniano, in virtù della loro ‘cultura del suddito’, e dimenticando che ‘le camice nere della Rivoluzione’ furono espresse dal Nord e dal Centro-Nord ma non trovarono nel Sud se non un’estraneità insormontabile mista all’antica passività nei confronti di ogni invasione straniera.

A capire quella gente “di bassa aristocrazia”--come si autodefinì uno dei loro, il velocista abruzzese Vito Taccone, nella trasmissione di Sergio Zavoli ‘Processo alla tappa’ - non erano Ugo La Malfa o Piero Calamandrei ma i parroci, fossero simpatizzanti di Giuseppe Dossetti o, com’era più frequente, di Luigi Gedda.

Erano loro che si erano assunti il compito di ritessere i legami comunitari, di organizzare vaste reti di soccorso bianco, di dirottare la carità privata e l’assistenza pubblica verso i focolari domestici più bisognosi. Non è casuale che mai una figura di prelato sia divenuta oggetto di caricatura o di satira irriverente nei tanti film interpretati dal Principe--‘Il Monaco di Monza’ di Sergio Corbucci (1963),si sa, è un finto monaco, come l’Antonio Capurro dell’anno prima nel film ‘I due Marescialli’, mentre il frà Timoteo de ‘La Mandragola’ di Alberto Lattuada (1965) è la versione cinematografica della celeberrima commedia di Nicolò Machiavelli.

Fuor di dubbio, lo avrebbe impedito la censura, particolarmente vigile nei primi due decenni del dopoguerra, ma assai più della censura a impedirlo era la prossimità degli uomini di chiesa al mondo dei ‘petits’. (Quella stessa Chiesa, tra l’altro, e neppure questo va dimenticato che si rifiutò di benedire la salma di Totò alla presenza della ‘moglie biblica’ Franca Faldini).

Se la DC, nel 1948, prese una valanga di voti lo dovette proprio alla sua vocazione ‘popolare’, all’appoggio massiccio di quella ‘subcultura’, la cattolica per l’appunto, che era rimasta estranea ed ostile al processo di unificazione politica della penisola e quando, per la prima volta, aveva ispirato un partito politico - il PPI nel 1919-- lo aveva fatto nascere dal basso, da un prete siciliano, Luigi Sturzo, infaticabile promotore, nella sua città di Caltagirone, delle più varie imprese artigianali e agricole.

 

Totò rappresentava la dimensione poetica, l’autocoscienza o meglio la sublimazione tragicomica del qualunquismo sicché, al fondo dell’insofferenza che producevano nell’animo della classe colta e dei borghesi snob i suoi film, bisogna leggere, soprattutto, la tendenza a fare della sua ‘razza dello spirito’ il capro espiatorio di tutti i disastri piovuti addosso al paese. Poteva pure parodiare il duce nell’inimitabile discorso di ’Totò contro Maciste’ –non lo si può riascoltare senza scompisciarsi dalle risa: ”Uomini di Tebe, Soldati, Richiamati |…| L’ora della riscossa è giunta! Vuoi tu combattere contro l’assiro secolare nemico delle nostre genti? |..|

Abbiamo spade, frecce, mortaretti trictrac e castagnole |..| Spezzeremo le reni a Maciste e ai suoi compagni, a Rocco e ai suoi fratelli”, tutte frasi, tra l’altro, pronunciate arrotando le erre e scandendo ducescamente le parole - ma la sua ‘antipolitica’ , come quella di Guglielmo Giannini, nell’impietoso ritratto di Luigi Salvatorelli, era liquidata come il cavallo di Troia del rinascente, intramontabile, fascismo italico.

"La lotta contro l’antifascismo - scriveva lo storico piemontese ne ‘La Nuova Europa’ del 24 febbraio 1946, è stata mascherata con la vecchia scemenza dell’antipoliticismo, dello stato puramente tecnico o amministrativo, scemenza che si tradurrebbe, nel fatto, sotto pretesto di libertà, dell’onnipotenza dell’amministrazione governativa sui cittadini rinunciatari politicamente e nel dominio di questa amministrazione, per conto del partito unico qualunquista: fascismo, cioè, al cento per cento”.

Non tutta la ‘political culture’, però, condivideva le incomprensioni fatali dell’azionismo - di cui Salvatorelli era, pur nella sua relativa moderazione, una delle figure più prestigiose. Un suo grande, e dimenticato conterraneo, lettore attento e geniale di Vilfredo Pareto, Filippo Burzio, nel 1945, pensava quasi a un ‘liberalismo di massa’, aderente al sentire popolare e per nulla altezzoso nei confronti di un movimento ‘plebeo’ come l’Uomo Qualunque.



“Voi potete, pertanto, elevare dei dubbi sulla sincerità dei motivi, sulla serietà e profondità dell’evoluzione che ha portato testé il qualunquismo a cambiare la propria denominazione, intitolandosi” Fronte liberal-democratico dell’Uomo Qualunque”; ma non dovreste che rallegrarvene, pur restando sul chi vive, e magari rifiutandosi a intese o fusioni premature.|…| Che la Destra, nel suo odierno travaglio costitutivo si organizzi intorno ai grandi principi liberali, sia pure, com’è naturale, intesi in senso conservatore |..| è cosa altamente auspicabile. Che dalla informe crisalide qualunquista, per espulsione sincera dei relitti neofascisti (i quali vadano così a costituire un’infima e inane destra totalitaria), esca col tempo una farfalla liberale, è metamorfosi ancora oggi assai incerta, ma che, se si effettuasse, dovrebbe esser veduta di buon occhio anche a sinistra.

Perfino quel concetto dello Stato amministrativo - che sembra costituire, a tutt’oggi, il maggior bagaglio ideologico del qualunquismo - potrebbe venire considerato senza troppa diffidenza, se si pensi al bell’uso, e alla splendida interpretazione, che il fascismo fece del concetto opposto dello Stato etico, sacro ai ricordi hegeliani dell’antica Destra. Esso traduce, a suo modo, quell’universale avversione odierna alla statolatria, sia di destra che di sinistra, sia nazifascista che comunista |…| uno dei maggiori segni dell’epoca”.

 

L’incontro tra il mondo di Totò e di Guglielmo Giannini com’è noto amico e collaboratore del Principe in spettacoli teatrali e cinematografici--,da una parte, e la democrazia liberale, dall’altra ,com’era prevedibile, andò a vuoto proprio come quello, mancato, tra Totò e Charlie Chaplin negli anni cinquanta in Costa Azzurra. Si potrebbe dire :a causa della debolezza strutturale della seconda - anche nei partiti laici più moderati soffocata dalla democrazia etico-pedagogica - e della progressiva erosione del primo, incalzato da un confuso processo di modernizzazione accelerato dalla TV, dalle emigrazioni interne che avrebbero fatto di Torino la terza città meridionale, dalla sostanziale incapacità dei custodi delle credenze religiose di adeguarsi ai tempi, guidando e non pretendendo di arrestare il cambiamento, con anacronistiche condanne di costumi ormai inestirpabili.

Non tutto però è andato perduto e buttato nel cestino della storia. Quanto scrive Giovanni Orsina, ne Le virtù liberali del qualunquismo-- in Guglielmo Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 - ci dà la chiave interpretativa per intendere cosa l’”umile Italia” di Guareschi, di Totò, di Giannini abbia rappresentato e quali insegnamenti, dopo tante ubriacature ideologiche dal ’68 in poi, possa ancora trasmettere alle nuove generazioni che ignorano le lacerazioni sociali e conflitti ideologici sottese dietro i film ‘leggeri’ di Totò.

“Il qualunquismo |..| ha rappresentato per molti versi la crisi di rigetto di una società civile esposta a un eccesso di politica, ovvero una conseguenza dell’età dei totalitarismi - e in questo senso è stato perciò un fenomeno liberale.|…| Per quanto condannata all’insuccesso, almeno nella sua forma ‘pura’, la vicenda dell’Uomo qualunque rimane tuttavia interessante non soltanto per quanto di critico ha espresso nei confronti della realtà politica italiana, ma anche perché, sebbene in maniera istintiva e confusa, ha suggerito l’esistenza di una via totalmente alternativa allo sviluppo del paese. E’ la via per la quale |…| l’intervento ortopedico del potere pubblico viene ridotto al minimo indispensabile, e ci si affida invece all’evoluzione autonoma della società civile. Che per gran parte della nostra storia, e soprattutto in alcune aree del paese, questa società civile sia stata afflitta da difetti gravissimi, tali da renderla inadatta all’impianto e al buon funzionamento di un governo rappresentativo e limitato è fuor di dubbio. E’ però anche vero che i progetti ortopedici, pure quando nascevano dalle migliori intenzioni, sono poi quasi sempre stati colpiti dall’eterogenesi dei fini.”

Meglio non si poteva dire.

 

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