Testimonianze
originali sulla figura umana di Totò aggallano ancor oggi, a quasi 50 anni dalla
scomparsa, diamo notizia di recenti “rinvenimenti” nel quartiere romano del
Quadraro.
La prima
delle notizie rinvenuta è solo un piccolo frammento, ma bello, perché ci
permette, con brevi parole, di “toccare” ancora viva la vibrante carica umana,
la profonda sensibilità di chi pur essendo nato sul gradino più basso e
diseredato dell’esistenza era Principe nell’animo.
Nel
quartiere romano del Quadraro, in Via Dei Quintilii 63A vi è, fin dal 1947, una
“Barberia”.
L’attuale
propietario, Gino Scarano, vi ha sempre lavorato fin da quando ha iniziato a
fare il “garzone” di suo padre, il Barbiere.
Erano anni
duri quelli, gli italiani non avevano denaro soverchio per curare l’estetica,
era già difficile riuscire a mangiare.
La bottega
della periferia non sempre aveva un numero di avventori sufficiente per sbarcare
il “lunario”. Il consiglio di un cliente importante, casualmente conosciuto,
Rossano Brazzi, dà uno stimolo al barbiere.
L’idea è
quella di portare con sè gli attrezzi del mestiere e spostarsi nei vicini
stabilimenti cinematografici, gli studi della Titanus e della De Paolis,
arrivando fino a Cinecittà.
Vi era in
quei luoghi un brulichio di persone più o meno addette ai lavori, per cercare
occupazione o per svolgerla; tutti, dagli operai agli aspiranti attori, ai
registi ai divi, trovarono la comodità di poter spuntare i capelli o fare la
barba nei tempi morti della giornata.
Preziosi
ricordi sono nella memoria di Gino Scarano, barbe fatte e spuntature di capelli
a divi come Rossano Brazzi, noto per l’eleganza, Alberto Sordi di cui si
ricordano le simpatiche battute, Aldo Fabrizi che parlava immancabilmente di
cibo, o Nino Manfredi che aveva interesse solo per l’arte.
Ma su tutti
i ricordi il più remoto, quello di un ragazzetto di soli sette anni, è certo il
più precisamente inciso nella memoria, riguarda il suo esordio nel mestiere, in
cui, fino ad allora, era stato “garzone”.
In una di
quelle mattinate a Cinecittà, entrando in uno studio l’aria stessa vibrava
dell’emozione che solo il nome suscitava, aleggiava tra i presenti,
impercettibilmente sussurrato un nome: “Il Principe”.
Gino, di
soli sette anni, avanzava nell’ampia penombra dello studio fino alla zona
illuminata del set, molte persone affaccendate si muovevano con rapidità , da
una parte le note poltroncine dove regista e attori principali attendono che
tutto sia in ordine per iniziare il lavoro creativo.
Gino e il
padre, protetti dalla penombra, si avvicinano a questo ristretto gruppo: gli
occhi profondamente attenti dell’attore, abituati a cercare nell’umanità
ispirazione e linfa per il lavoro, si soffermano sulla coppia. E’ un solo attimo
ma la richiesta è pronunziata con semplicità e chiarezza: il Principe vuole che
sia il piccolo Gino a fargli la barba.
Il pudore
impedisce oggi al protagonista di dire di più. Gli basta questo, il ricordo del
suo esordio lavorativo, essere stato scelto dal Principe!
Moltissimi saranno poi i clienti di Gino Scarano, attori e clienti “comuni”
che si sono avvicendati nella sua Barberia, ormai riconosciuta come “Bottega
Storica” dal Comune di Roma.
Senza dubbio però è quel ricordo del trapasso subitaneo dall’infanzia al
mondo del lavoro, una vera e propria iniziazione all’età adulta, avvenuta
col calore umano di gesti semplici che contraddistinguono i comportamenti
dei Principi, che gli è rimasto impresso nel cuore.
Sempre
dal Quadraro, girando in un museo all'aperto, per le vie del quartiere, il
”MURo”, cioè Museo, Urbano di Roma, ci si imbatte in un autore
figurativo di murales ed affini che ha decorato un ruvido steccato di legno
con un incredibile nuovo ritratto di Totò.
Il popolare Attore è immortalato dall’autore dell’opera figurativa, Diavù,
con un viso perfettamente somigliante nei tratti somatici, che riproduce,
con maestria, una delle più belle espressioni che balenavano sul volto
plastico di Totò, quella che mette in immediata successione, quasi
sovrapposte, arguzia e innocenza.
Per il resto il corpo dell’attore è trasformato in un’allungata sagoma nera,
che rielabora il famoso frac trasformandolo nella tuta di Diabolik, infine
sull’ineffabile volto spicca la nota di colore di due baffetti…verdi.
Il titolo dell’opera è, ovviamente, Totobolik!
Il surrealismo sintetico di questa chiave interpretativa proposta da Diavù
ci pare perfetto per sdrammatizzare l’oleografismo del ritratto siglandolo,
così proprio come avrebbe fatto lo stesso Totò, sempre a metà tra
drammaticità della vita quotidiana e poesia dell’irrealtà.
Firenze 30 MAGGIO 2016 Emanuela Catalano
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