La filosofia in Antonio De Curtis a cura di Franco Saviano
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Nell’approssimarsi del quarantennale della scomparsa di AdC (17 aprile del 1967), mi è parso quasi un dovere contribuire col presente articolo alla commemorazione di un personaggio che con la sua arte ha lasciato di sé un ricordo indelebile. I suoi film, le sue poesie, le sue canzoni e soprattutto la sua grande umanità sono, ancora adesso, ricordati con ammirazione e rimpianto. Fu un grande maestro d’arte e di vita. Il vuoto che ha lasciato in molti di noi è immenso ed incolmabile.
LA FILOSOFIA IN ANTONIO DE CURTIS Su AdC e sulla maschera da lui creata credo sia stato detto e scritto tutto. In questo breve spazio letterario cercherò, perciò, di mettere in luce non le qualità artistiche del grande attore napoletano ma un suo aspetto inedito, quello filosofico, pur consapevole del fatto che un rapporto tout court tra AdC e la filosofia sembrerà una forzatura, non essendosi egli mai occupato di tale disciplina. Tuttavia, l’idea di fondo da cui muove questo articolo è quella secondo cui tutti siamo filosofi e tutti, in quache modo, facciamo filosofia anche se non ne siamo consapevoli (Gramsci, K. Popper) (1). La filosofia, sostiene Gramsci, non è una forma di cultura per iniziati, ma un’attività dello spirito umano che ogni uomo esplica, ed una linea di condotta tendente a suscitare nuovi modi di pensare e di essere. In un suo libro il filosofo E. Fromm (2) scrive che se tutti siamo filosofi non tutti abbiamo il dono di fare della filosofia. Per lui il vero filosofo è solo colui che “incarna” e vive concretamente le idee che esprime. Soltanto a questa categoria di uomini è dato il privilegio di essere credibili e di lasciare negli altri un segno tangibile del loro pensiero e della loro azione. Tra gli uomini che appartengono a questa categoria, ritengo che un posto d’onore debba essere senz’altro attribuito ad AdC che, attraverso la sua maschera, “incarnò” e visse quei valori culturali, artistici ed etici che, se furono molto apprezzati dai suoi fans, non lo furono altrettanto da coloro che dell’attore pensarono a sfruttarne solo la vis comica e le risorse artistiche. Anzi, per l’intero corso della sua vita, AdC dovette sopportare di sentirsi addosso il cliché di attore anarchico, caotico, senza valori, senza rispetto per nulla e per nessuno, dotato solo di un individualismo ad oltranza, di una vis comica fine a se stessa, di una nebulosa coscienza di classe e di una genialità artistica generica ed indefinita. Perfino un mostro sacro come Federico Fellini, pur senza nascondere la sua grande e tardiva ammirazione per l’attore, ebbe a dire di lui: “Non credo che Totò avrebbe potuto essere meglio, più bravo, diverso da com’era nei film che ha fatto. Totò non poteva fare che Totò, come Pulcinella che non poteva essere che Pulcinella; cos’altro potevi fargli fare? Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò”. Giudizio certamente lusinghiero ma che, a mio avviso, non rende giustizia al valore ed al genio del grande artista napoletano, come dimostrano i suoi ultimi lavori fatti col regista P. P. Pasolini che intì e colse in maniera più vera l’anima artistica e filosofica di Totò.
In un suo articolo questo regista, tratteggiando il carattere di tale maschera, sostenne, infatti, che il linguaggio attraverso cui essa si esprime non va banalizzato e sottovalutato, come si è portati a fare nel vederla in opera, ma va sottoposta ad un’operazione di “decodifica” attraverso cui estrapolare la cultura, i valori e la visione filosofica del suo autore; visione nella quale è compendiata e sedimentata tutta la cultura e la filosofia del popolo napoletano ad iniziare dai motivi orgiastici e sacrali della civiltà greco-romana (ben noto è il motto “carpe diem” nel quale viene sintetizzata la saggezza della filosofia di Orazio), passando per un certo spirito satirico rinascimentale, impersonato da Lorenzo il Magnifico (“Chi vuol essere lieto sia del doman non v’è certezza”), a terminare con la più napoletana ed intellettuale delle maschere, quella di Eduardo de Filippo, anch’egli, come AdC, interprete della sensibilità, della cultura e della filosofia del popolo napoletano. Filosofia che si manifesta nelle grandi passioni di questo popolo e nel suo espressivo linguaggio, in virtù del quale al napoletano basta spesso una sola parola o un solo gesto per tenere un intero discorso. La medesima cosa si può, certo, dire della gestualità e del linguaggio di Totò la cui grandezza consisteva proprio nel fatto che egli sapeva andare oltre la parola: “Non contava ciò che diceva, ma ciò che trasmetteva nell’aria” (3).
Tra le frasi famose pronunciate da Totò, quella che più di altre si presta ad una riflessione filosofica è sicuramente: “Siamo uomini o caporali?”; frase che fu addirittura utilizzata come titolo di uno dei suoi film. Si tratta di un’espressione che può risultare poco comprensibile a chi non ha dimestichezza con il linguaggio e la psicologia di AdC, per cui lascio che sia lo stesso attore napoletano a spiegarne il significato. “Questa frase, nata durante la mia giovinezza, mi è sempre servita…per misurare la statura morale degli uomini e per classificare l’umanità in due grandi categorie: gli uomini e i caporali. Quella degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quelli che sono costretti a lavorare come bestie per tutta la vita, nell’ombra di un’esistenza misera. I caporali sfruttano, offendono, maltrattano, sono esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno. Li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità e L’intelligenza per farlo, ma con la sola bravura delle loro facce di bronzo, pronti a vessare l’uomo qualunque”. Si tratta, come si vede, di una riflessione in cui può considerarsi compendiata l’intera filosofia etica di AdC, secondo cui il sistema di valori e di norme che regolano le relazioni e i comportamenti umani è sostanzialmente fondato su una falsa ed equivoca applicazione delle regole che dovrebbero governare le relazioni interpersonali, spesso basate sulla prevaricazione e sulla violenza gratuita che in molti casi pone l’uomo un gradino inferiore a quello delle stesse bestie (“Più conosco gli uomini più amo le bestie”. Dal film “Totò Tarzan”). Questa riflessione mostra, inoltre, quanto AdC fosse sensibile alla problematica del potere e quanto stigmatizzasse il cattivo uso che se ne fa in ogni tempo, luogo e regime. “A qualunque ceto essi (i caporali) appartengano, di qualunque nazione essi siano…hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera.” (Film “Siamo uomini o caporali?”). “Se un pover’uomo sbaglia, e può capitare a tutti, perbacco, c’è sempre un caporale che ne approfitta. Maledetti caporali!” (Film “Parli come badi”).
L’essenza del potere, secondo AdC, coincide con l’essenza stessa della vera democrazia che è collaborazione e integrazione tra le classi e non egemonia di una classe sull’altra . E’ in quest’ottica che vanno lette, a mio avviso, alcune sue battute come: “Democrazia vuol dire che ognuno può dire e può fare tutte le fesserie che vuole” oppure “Sai quanto gliene frega al popolo della politica!” o ancora “Siccome sono democratico, comando io!” Battute attraverso le quali la logica è resa volutamente incongruente allo scopo di imprimere ad esse un effetto comico che non ci sarebbe stato se esse fossero state dette con un linguaggio “normale”. Del resto l’incongruenza, e cioè la mancanza di consequenzialità tra ciò che si dice e ciò che si vuole intendere, fu una delle caratteristiche fondamentali della comicità di AdC; ed è proprio in tale ottica che bisogna leggere molte delle sue battute quali, ad esempio: “ Parli come badi!”, “Ogni limite ha una pazienza!”, “Ho un capello per diavolo!”, ecc. In diverse sequenze dei suoi film è possibile ravvisare una sorta d’impegno politico-sociale che il grande attore napoletano portò avanti attraverso i suoi frequenti ruoli di povero cristo, sempre costretto a vivere di espedienti e di piccoli imbrogli. La capacità che aveva l’attore di calarsi in questo tipo di personaggio dimostra che la sua comicità non fu sempre un’espressione artistica fine a se stessa, ma fu anche una sorta di mezzo di cui egli si servì per denunciare le ingiustizie e le sofferenze di chi vive nell’indigenza e nel bisogno.
La scenetta tratta dal film “La banda degli onesti”, qui trascritta in nota (4), può essere considerata una sorta di “lezione” che Totò impartisce ad un suo amico (il benpensante Peppino) per convincerlo a diventare suo socio in “affari”. Nella scenetta i due personaggi discutono in piedi e vicino al bancone di un bar. Davanti a loro due tazze di caffè senza zucchero e dietro al bancone il barista che, vedendo Totò attingere troppo zucchero dal contenitore, interviene con fermezza per levarglielo davanti. In tale scenetta, il comico napoletano, raggiungendo e superando l’assurdo, riesce ad essere al tempo stesso un disinteressato maestro di politica economica ed un furbo opportunista. E’ un maestro quando spiega a Peppino il perverso meccanismo dello sfruttamento di classe, è un opportunista quando, confidando nella distrazione (o tolleranza?) del barista, si appropria di più zucchero di quanto gliene sia necessario per dolcificare il suo caffè. L’assurdo consiste nel fatto che Totò, pur consapevole di essere un opportunista, riconosce al barista (cioè al detentore dello zucchero e quindi del “capitale”) il diritto di difendere i propri interessi da profittatori come lui. In questo film ed in questa scena la disonestà viene implicitamente indicata come una conseguenza dell’ingiustizia patita da chi vive nell’indigenza e nel bisogno. In un’altra scenetta del film “Miseria e nobiltà” (quella della famosa lettera che Totò scrive per conto di un suo cliente) l’attore napoletano pronuncia queste parole: “Bravo! Bravo! Viva l’ignoranza! Tutti così dovrebbero essere…E se ha dei figliuoli, non li mandi a scuola…per carità!…Li faccia vivere nell’ignoranza…” Parole che, nella loro apparente comicità, denunciano la condizione di chi non ha consapevolezza del fatto che la propria ignoranza costituisce un aspetto della propria debolezza. E’ difficile non leggere tra le righe di questa battuta una severa critica che Totò rivolge non a coloro che sono ignoranti ma a coloro che mantengono nell’ignoranza chi, invece, avrebbe diritto ad essere istruito (5). Del resto AdC non mancò, in molti altri momenti della sua vita artistica, di lanciare messaggi critici verso la classe politica del suo tempo che sarà spazzata via pochi anni dopo dai giudici del pool di “Mani pulite”. Significative ed emblematiche sono considerate, a riguardo, alcune sue battute come: “Ho paura, quello è un deputato!”, oppure “A proposito di politica, ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?”, o anche “Do ut des, ossia tu dai tre voti a me che io do un appalto a te”. Queste frasi e molti suoi sketch (tra i più noti quello del vagone ferroviario), dimostrano quanto AdC non perdesse occasione per mettere alla berlina la categoria dei politici nei confronti dei quali non manifestò mai una grande simpatia e stima.
Vorrei terminare questo mio contributo letterario ricordando una delle poesie più note e più belle che siano mai state scritte da essere umano: “A’ livella”. Poesia che, aldilà dell’incanto dei suoi versi e delle emozioni che essa suscita, può essere ritenuta una vera e propria pagina di sociologia in virtù della tematica che affronta e del messaggio che trasmette.
“A livella” è, a mio avviso, una poesia che fa parlare i morti ma che è diretta fondamentalmente alla mente e al cuore dei vivi. Il suo messaggio non ha bisogno di tante parole per essere spiegato: la morte è l’unica vera realtà esistente; essa trascende la vita ed ogni altra realtà terrena. Attraverso la morte si annulla qualunque differenza e gli uomini possono finalmente raggiungere la vera uguaglianza; quell’uguaglianza che essi devono sforzarsi di instaurare su questa terra quando sono ancora vivi, senza attendere che sia la morte a darne l’avvio. (1) La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. (A. Gramsci, “Quaderni del carcere”, 10, II in www.filosofico.net/cosaelafilisofia.htm). Tutti gli uomini sono filosofi, perché in un modo o nell’altro assumono un atteggiamento nei confronti della vita e della morte. (K. Popper in www.filosofico.net/cosaelafilosofia.htm) (2) E. Fromm: La disobbedienza e altri saggi, Milano 1982 (3) L. de Crescenzo (in: http://www.antoniodecurtis.org/critica.htm) (4) Tratto da: “La banda degli onesti” Totò e Peppino sono al bar, e Totò cerca di convincere Peppino a “saltare dalla parte dei malfattori” ovvero a convincerlo ad aiutarlo a fabbricare i famosi biglietti falsi da dieci mila lire. Totò (indicando le due tazze di caffè davanti a lui): Questa è lei, questa è l’altro. All’inizio sono tutt’e due senza zucchero. Lei che cosa farebbe? Peppino: Che farei? Totò: Ecco, lo vede? Non lo sa nemmeno lei. Lui, invece, lo sa e ne approfitta (e Totò versa dello zucchero nella sua tazza). Lei cosa pensa? Peppino: Eh, si fermerà prima o poi! Totò: Ecco, lei pensa così perché è una persona benpensante e ha fiducia nel prossimo. Lui no, e continua…continua…continua…! Peppino: Continua sempre? Totò: Sempre! Il barista: No, lei adesso non continua più, se no va alla cassa e paga il supplemento! Totò: La prepotenza, ecco che cosa ci vorrebbe! E già, caro Lo Turzo, perché diciamo la verità, lei è uno che si fa mettere i piedi in testa. (5) Negli anni in cui questo film fu girato, le problematiche dell’inadempienza scolastica e dell’emancipazione culturale delle classi meno abbienti erano attuali e particolarmente “sentite” dall’opinione pubblica.
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