La
cronaca di questi giorni è piombata fragorosamente su di una delle personalità
artistiche che hanno caratterizzato il secolo trascorso da neppur dieci anni.
Dei ladri, introdottisi nottetempo, hanno rubato dalla cappella del Marchese De
Curtis, in arte Totò, il blasone marmoreo riproducente i simboli araldici delle
nobili famiglie di cui il popolare attore partenopeo è stato l’ultimo
discendente.
Il furto è avvenuto, nella notte del 31 Maggio, nel Cimitero di Santa Maria del
Pianto a Napoli, dove nel dopoguerra Totò aveva fatto costruire una cappella
gentilizia, non lontano da quella che conservava la memoria di un altro grande
Artista partenopeo, Enrico Caruso, all’interno del recinto degli uomini illustri
.
I profanatori hanno usato il sistema del “ paghi uno, prendi due”, infatti in
una sola azione notturna hanno vilipeso due luoghi privati di memorie affettive
e rubato dall’uno e dall’altro luogo di sepoltura.
Antonio Clemente De Curtis, signore, anzi, marchese, era nato, anche se per la
malasorte e i costumi sociali dell’ epoca, ha impiegato una vita per vederselo
riconoscere.
Ma tanti erano i talenti artistici ed umani di questo straordinario protagonista
della cultura artistica italiana che si finisce per dimenticarne le vicende
umane.
La recitazione e la creazione della “maschera” e delle battute del suo
personaggio d’Arte, “Totò”e di tutti i differenti personaggi di “italiani”
imbroglioni, pusillanimi, coraggiosi, sporcaccioni, aggressivi, ladri che ha
“sceneggiato” e interpretato anche con il corpo, e che lo pongono quasi al
livello di un drammaturgo-attore, come altri negli stessi anni: Federico Fellini,
Dario Fo , Eduardo De Filippo.
La scrittura comunque è affiancata alla vita umana come si evince dalla lettura
delle raccolte poetiche di cui la più famosa si intitola “A’livella”.
Dunque Attore, Scrittore, Poeta e Autore di canzoni, e proprio le canzoni forse,
in sé, riassumono tanta parte del suo talento e della sua notorietà.
“Malafemmena” la canzone a cui il nome di quest’Autore è legato in tutto il
mondo, non è solo emblematica per la sua musica, ma è, anche nel titolo,
un’allusione alla città tanto amata e non sempre riconoscente, ed una
definizione della vita terrena che fu con lui maligna negli avvenimenti legati
alla sfera sentimentale pur avendolo largamente beneficiato di talenti artistici
e di doti umane.
Antonio,
Vincenzo, Stefano Clemente nasce a Napoli il 15 febbraio 1898 da Anna Clemente,
una cameriera innamorata, e da un giovane aristocratico, il Marchese Giuseppe De
Curtis che non avrà il coraggio di riconoscere l’affetto della donna e il figlio
per oltre vent’anni.
Il piccolo Antonio cresce in una casa povera di un quartiere povero di una
Napoli di primo novecento, quando la povertà era drammatica.
Questo bimbo povero e solo non ha un posto chiaro nella società, porta il
cognome della mamma, ma vede, in carne e ossa, il papà Marchese girare per le
strade del quartiere, sente i sussurri che si fanno al suo passare, sarà vittima
e testimone vivente di un mondo, fortunatamente oggi scomparso, di una società,
che ti bollava per i tuoi natali.
Antonio, nella più remota infanzia, è stato figlio di padre “fantasma”, ma ben
noto e vivente; da tutti conosciuto e "saputo", eppur non esistente, non
nominabile, non appellabile con la parola più giusta per un figlio: padre.
Così il piccolo Antonio Clemente inizia il suo viaggio nella vita con un
bagaglio di solitudine mutuata dallo scherno subito a causa di queste condizioni
familiari.
Bambino solitario, inventa un gioco tutto suo: il “funerale”, che interpreta da
solo, con gli animali di casa, con l’ausilio di poveri stracci e scatole a
fungere da elementi di questa tristissima cerimonia che manteneva vivo in lui il
senso di solennità e di dignità che aveva percepito vedendo nel quartiere certe
cerimonie, le uniche, al riparo dagli scherzi sgradevoli e offensivi degli altri
bambini.
In Antonio, da sempre , convivono due personalità, quella del bimbo
povero che si trastulla da solo, schivando così la miseria e la cattiveria del
mondo, e l’anima, nobile nei gusti e nei sentimenti, generosa e intelligente di
un gentiluomo:
- Totò un po’ maschera e un po’ marionetta, paesano, invadente, arguto e
stupido, presuntuoso e talora villano, burattino snodato, animato dai bisogni
ancestrali dell’uomo evidenziati all’eccesso: una fame atavica di ogni cibo, una
paura che rasenta l’assurdo del coraggio più spavaldo, il desiderio sessuale che
si mostra, pudico, ma eccessivo, dagli sguardi allungati in tralice e dai guizzi
equivoci del corpo.
- Antonio De Curtis aristocratico, signore, elegante e raffinato, vero
gentiluomo partenopeo, malin-conico e schivo, ma sempre dominatore della scena e
della vita.
Si prendeva sul serio , nella vita, con la ricerca ossessiva in una lunga
battaglia legale, per ottenere il riconoscimento dei titoli nobiliari, il
“sangue blu”, per rifarsi delle tante umiliazioni.
Totò, sul palcoscenico, è più giocoso e sicuro delle sue radici plebee, irride
la potenza sociale, politica od economica: “…ma mi faccia il piacere” “ho fatto
tre anni di militare a Cuneo”, fa spallucce e ride di tutto ciò che si mostra
diverso dalle sue origini popolari.
Il contenuto della lirica “A livella” che dà nome ad un’intera raccolta poetica
di Antonio De Curtis sembra proprio alludere alle due identità che componevano
l’uomo Antonio De Curtis come individuo: la maschera Totò e l’uomo colto e
raffinato il marchese Foccas Principe di Bisanzio.
Solo nel 1921 il Marchese Giuseppe De Curtis sposa Anna Clemente legalizzando la
loro lunga relazione e anche, nel 1928, la situazione anagrafica del figlio
Antonio che diventerà così Antonio Clemente De Curtis .
A seguito della frequentazione col Marchese Gagliardi Foccas, Antonio ne viene
adottato, così che dal 1946 potrà fregiarsi del nome di questi e divenire così
il Marchese Antonio Clemente De Curtis Gagliardi Focas.
Le ricerche Araldiche condotte in seguito gli permettono di rendere completo ,
nella sua interezza storica il suo cognome patronimico con i titoli più antichi
attribuibili alla sua discendenza: Marchese Antonio Clemente De Curtis
Gagliardi Foccas Principe di Bisanzio.
I ladri che hanno rubato dalla cappella del Marchese De Curtis il blasone
marmoreo da lui medesimo ridisegnato e fatto realizzare, hanno profanato la
memoria e gli affetti che l’uomo Antonio non aveva potuto prescindere nella sua
vita terrena .
Ma la medesima cattiveria, brutale e idiota, non ha potuto sconvolgere Totò,
l’artista, che col suo talento è al disopra dei tratti della bestialità umana.
L’Artista Totò ha partecipato e ancora partecipa di quella parte delle azioni
umane che sottendono l’Arte e la Bellezza, la sincerità e i sentimenti.
E questi
valori, che trapelano sempre dall’Arte che di lui ci resta, non possono essere
scalfiti dal furto di un marmo.
L’azione resta violenta e ingiusta ai nostri occhi, ma non inficia in nulla la
dolcezza del luogo e il rispetto che l’Italia e gli Italiani devono a Totò che
ha saputo rendere immortali caratteristiche umane e sentimenti elevatissimi
ponendosi così tra gli eletti anche nei cieli dell’Eterno.
Ma proprio mentre scrivo giunge la bella notizia.
Questa notte gli agenti della
Squadra Mobile della Questura di Napoli hanno ritrovato lo stemma assieme ad
altri particolari di marmo scolpito trafugati dalla tomba di Enrico Caruso e da
altri reperti non ancora identificati.
L’ipotesi è quella del furto su commissione, i ladri erano già pronti a vendere
la refurtiva per arredare qualche sontuoso edificio di pescicani senza scrupoli.
Firenze 3 Maggio 2009 Emanuela Catalano
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